In libreria
Quel mitico “Viaggio in Italia”. La (ri)nascita di una nuova lingua italiana per immagini
Il libro più citato della storia della fotografia italiana, quello su cui più si è studiato, discusso, polemizzato e fantasticato, era fuori catalogo da decenni. Ora torna in libreria, a quarant’anni dalla prima pubblicazione
Sembra impossibile, ma è successo. Il libro più citato della storia della fotografia italiana, quello su cui più si è studiato, discusso, polemizzato – fantasticato anche – era fuori catalogo da decenni, e comunque da prima che si accendesse il dibattito attorno a esso. Chi l’avesse voluto avere in mano per sfogliarlo avrebbe dovuto sborsare una somma a quattro cifre. Lo scorso anno, quarantesimo anniversario della pubblicazione, la casa d’aste Finarte ne ha battute due copie: una è stata venduta ad aprile per 3.096 euro (stima di partenza 1.000-1.500), l’altra a dicembre per 1.806 euro (stima: 1.200-1.800). Quasi nessuno tra coloro che l’avevano studiato o discusso poteva permetterselo. Si intitola “Viaggio in Italia” ed è il catalogo dell’omonima mostra collettiva che nel 1984 radunò alla Pinacoteca di Bari (l’esposizione toccò poi Genova, Ancona, Roma, Napoli e Reggio Emilia) una ventina di fotografi, la metà dei quali oggi è considerata la generazione dei maestri del “nuovo paesaggio italiano”.
A tessere i fili dell’operazione Luigi Ghirri, che radunò i talenti migliori su piazza e ne selezionò i lavori. Gli autori, in ordine alfabetico, così come comparivano a lato della cartina fisica dell’Italia ritratta in copertina, erano Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Giannantonio Battistella, Vincenzo Castella, Andrea Cavazzuti, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Carlo Garzia, Guido Guidi, Luigi Ghirri, Shelley Hill, Mimmo Jodice, Gianni Leone, Claude Nori, Umberto Sartorello, Mario Tinelli, Ernesto Tuliozi, Fulvio Ventura e Cuchi White. A introdurre le 86 fotografie un testo di Carlo Arturo Quintavalle e uno di Gianni Celati.
E’ un po’ come se, per quarant’anni, chi avesse voluto leggere e compulsare “I promessi sposi” non avesse potuto comprarlo. Il paragone con Manzoni non è casuale, perché ciò che testimonia “Viaggio in Italia” è proprio la nascita di una nuova lingua italiana per immagini. Si tratta di una lingua letteraria, colta ma accessibile, generata avendo sciacquato i panni delle cartoline Alinari non “in Arno”, ma nelle correnti dell’Hudson o del Mississippi. Un alfabeto di immagini italianissime, guardate con un occhio diverso, mutuato dalle tendenze che, già agli inizi degli anni Settanta, erano quelle consolidate negli Stati Uniti. Meno Henri Cartier-Bresson, più Walker Evans. Così si legge nel risvolto di copertina: “Viaggio in Italia nasce dalla necessità di compiere un viaggio nel nuovo della fotografia italiana, e, in particolare per vedere come una generazione di fotografi, lasciato da parte il mito dei viaggi esotici, del reportage sensazionale, dell’analisi formalistica, e della creatività presunta e forzata, ha invece rivolto lo sguardo sulla realtà e sul paesaggio che ci sta intorno”. E’ interessante notare che da subito si specifica che il viaggio non è nel territorio italiano, ma nella nuova fotografia che, allora, si faceva nel nostro paese. Un nuovo modo di guardare.
Oggi il libro è tornato in libreria per Quodlibet, nella forma di una riproduzione anastatica dell’edizione del 1984, allora stampata ad Alessandria da Il Quadrante. Il prezzo di copertina è popolare per un libro di questo genere: 42 euro. L’operazione è stata promossa e realizzata dalla Direzione generale creatività contemporanea del ministero della Cultura e dal Museo di fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo, in collaborazione con l’Archivio Eredi di Luigi Ghirri. Il volume, in un baleno, è diventato mainstream, scalando le classifiche di Amazon e facendo bella mostra di sé sugli scaffali delle Feltrinelli di tutta Italia, pronto a diventare una strenna natalizia. La sfida è che, colmata la lacuna arrivando in libreria, in libreria ci resti. Come è giusto che sia per i grandi classici. Chiunque inizi a studiare fotografia, o anche solo desideri farsi un’idea di che cosa è stato quell’episodio così importante per la cultura visiva del nostro paese, deve poter aver accesso a questo volume anche quando l’hype sarà svanito.
In fondo è così per i grandi libri del canone americano. Il MoMa di New York tiene in catalogo “American Photographs” di Walker Evans, “The Family of Man” curato da Edward Steichen, “William Eggleston’s Guide” curato da John Szarkowski. Quest’anno, per il centenario dalla nascita di Robert Frank, Aperture ha ripubblicato “The Americans” e, a meno di 50 dollari, rende disponibili “Diane Arbus: An Aperture Monograph”, “Uncommon Places” di Stephen Shore e “The Ballad of Sexual Dependency” di Nan Goldin. Tutti capisaldi della storia della fotografia a stelle e strisce. Pochi mesi fa è uscita una nuova edizione di “Images à la Sauvette” di Henri Cartier-Bresson, pubblicato dalla Fondation HCB, e il suo gemello americano “The Decisive Moment”, per Thames & Hudson. Negli ultimi anni l’editore londinese MACK ha ristampato, tra i diversi altri classici, la “trilogia inglese” di Paul Graham: “A1-The Great North Road”, “Beyond Caring” e “Troubled Land”. Tutti, per quanto possibile per un libro di fotografia, a prezzi popolari.
Si tratta, quasi sempre, di pubblicazioni che ricalcano fedelmente le edizioni originarie: non solo il numero delle fotografie e la loro sequenza, ma anche il formato e – se c’è – l’apparato critico. Sembra una banalità, ma non lo è. Il libro dà la possibilità all’artista di fissare in modo definitivo un lavoro concepito non più come selezione “fior da fiore” del meglio della produzione, ma come una sequenza di immagini che diventa un vero e proprio testo con una sua coerenza interna. E’ vero, in fotografia sono più frequenti gli Arbasino che riscrivono la stessa opera più volte a distanza di anni. Con l’evoluzione della tecnologia, oggi la stampa in alta qualità è molto più economica di un tempo e gli artisti sono tentati di tornare sul proprio lavoro e rimescolare le carte, per restituire una versione “più definitiva” di quella pubblicata anni addietro, quando soldi e popolarità erano molto inferiori. Eppure, i grandi capolavori durano nel tempo. A parte casi particolarissimi, “The Family of Man” o “William Eggleston’s Guide” ad esempio, non si tratta di cataloghi di mostre, ma opere pensate per essere fruite nel privato delle proprie case, in un tête-à-tête che si può riprendere ogni volta che il libro viene estratto dallo scaffale che lo conserva.
In linea di principio “Viaggio in Italia” cadrebbe sotto la categoria del catalogo, come abbiamo detto. Tuttavia, uno degli autori coinvolti nel progetto, Giovanni Chiaramonte, in quegli anni tra gli amici più vicini a Ghirri, era convinto che la mostra, e dunque il libro che ne era derivato, nasceva “come intenzione poetica personale, unica, singolare, irripetibile, come tutte le intenzioni poetiche”. Chiaramonte spiegava che, nel supplemento di “Progresso Fotografico” del maggio 1982, l’artista di Scandiano aveva composto un testo fatto di sole citazioni, intitolato “Dopo dieci anni di fotografia” (oggi confluito in “Niente di antico sotto il sole-Scritti e interviste”, Quodibet, 2021), con frasi tratte da Hofmannsthal, Novalis, H. Fielding, Canetti, Lichtenberg, Hobbes and K. Kraus. “Con lo stesso metodo e con lo stesso spirito”, scriveva Chiaramonte, “Luigi compone anche i diversi capitoli visivi di ‘Viaggio in Italia’, scegliendo e mettendo in sequenza narrativa le immagini dei diversi fotografi, nessuna delle quali scattata per l’obbligo esterno di commesse pubbliche o private, ma realizzate solo per necessità poetica interiore”.
Lo zampino dell’artista-curatore (una specie di giocatore-allenatore) si vede a partire dai titoli dati alle sezioni della mostra e del libro, eccone alcuni: “A perdita d’occhio”, “Del luogo”, “Nessuno in particolare”, “Si chiude al tramonto”, “La O di Giotto”. Ghirri mescola con gusto ed equilibrio immagini in bianco e nero e a colori provenienti da percorsi personali anche molto diversi, ma che qui si amalgamano perfettamente. Mario Cresci era conosciuto per le sue sperimentazioni in bianco e nero in Basilicata, quasi agli antipodi dei notturni e degli interni emiliani di Olivo Barbieri. Il Basilico illuminista dei ritratti di fabbriche milanesi sarebbe, di per sé, lontanissimo dalla sensibilità mediterranea e ancestrale di Mimmo Jolice. Che ci azzecca la mistica di Chiaramonte con l’algida fotografia di un Castella? E Guidi che cerca di svelare con il Ventura che ama creare i misteri?
La storia precedente e successiva di ciascuno degli autori sembra una vicenda a sé. Non siamo di fronte a una scuola, come quella di Düsseldorf, perché è impossibile individuarne i maestri comuni. Il parallelo più vicino, probabilmente, è quello con i cosiddetti “New Topographics”, un altro pugno di fotografi americani accomunati dall’aver partecipato all’omonima mostra a Rochester (NY) nel 1975 (il sottotitolo recitava: “Photographs of a Man-Altered Landscape”). Anche quella vicenda, come quella di “Viaggio in Italia”, ha segnato più di una generazione, senza che quasi nessuno abbia visto realmente la mostra. E come per il caso italiano, anche per alcuni del gruppo di americani il lavoro successivo si è distanziato molto dalle premesse (un nome su tutti: Nicholas Nixon). Anche lì, strane alchimie. Imprevedibili vicende artistiche e umane.
Guido Guidi, oggi l’autore vivente di quel gruppo con maggior riconoscimento internazionale, ha di recente dichiarato ricordando Ghirri: “Luigi merita che tutti i fotografi di oggi gli bacino i piedi, ma le agiografie non fanno altro che danneggiarlo”. E’ una battuta che, oltre ad attestare il rispetto affettuoso per l’amico e collega, tradisce una sorta di malessere che nasce, probabilmente, dalla fortuna di “Viaggio in Italia”. Ed è un problema che molti autori si sono portati dietro, quasi infastiditi dall’impressione che il lavoro fosse appiattito sul progetto concepito da Ghirri. La tendenza a trasformare un episodio felice in categoria critica. L’obbligo istituzionale a presenziare ogni dieci anni (l’anno scorso era la terza volta) ai festeggiamenti di rito, con mostre, documentari, dibattiti per parlare del tempo che fu. Il disagio di dover aspettare di aver compiuto ottant’anni perché un museo di arte contemporanea si occupi del tuo lavoro.
Ma questo è il destino dei pionieri. Chi apre la strada non ha mai vita facile. E la notizia del ritorno in libreria di “Viaggio in Italia” e del suo successo di vendite è la cosa migliore che poteva capitare nel mondo angusto e povero di risorse della fotografia contemporanea italiana. Perché significa che quella vicenda è storicizzata, acquisita, consegnata ai posteri. Oggi è più facile dire: “Vuoi capire qualcosa di fotografia italiana? Parti da lì”. Ora che, dopo quarant’anni di sforzi, l’attenzione del pubblico al di fuori della nicchia è stata in qualche modo calamitata, si può passare ad altro. E cioè a ciò che è accaduto dopo. A capire chi, tra coloro che vagano nel limbo paludoso e sconfortante che è la “mid-career”, vale la pena guardare. Chi dalla generazione meravigliosa di “Viaggio in Italia” ha imparato abbastanza e da essa si è sufficientemente distanziato con tratti personali e chi, andando ad attingere ad altre fonti, è riuscito a creare una nuova lingua in grado di comunicare. Anche perché un altro aspetto problematico della fortuna di “Viaggio in Italia” sta nell’aver dato forse involontariamente consistenza all’idea che nel nostro paese la fotografia non possa che essere di paesaggio. Certo, gli uomini d’oro che hanno fatto la rivoluzione hanno illuminato quel genere in modo particolare. Ma non sempre lo hanno praticato. L’aver insistito, fino a quasi allo sfinimento, sul “paesaggio italiano” non ha aiutato le generazioni successive. E dunque avanti. Senza cadere nella tentazione che, per procedere, occorra per forza un nuovo Ghirri o un nuovo “Viaggio in Italia”.