Dino Campana, il guerriero errante

Jacopo Parodi

Un poeta visionario, la “Linea ligure”, i “Canti orfici” e la morte in manicomio. Arriva in libreria il Meridiano

Un pomeriggio d’autunno del 1971, nel suo genovese antico e pettegolo Clelia Sbarbaro rammentava di quando il fratello Camillo, tra i grandi poeti del Novecento italiano, il maggiore della “Linea ligure” insieme a Montale, le aveva portato in casa un poeta scalcinato e vagabondo: “Aveva più pidocchi che capelli”. Più che fané, era un ciclone imploso. Il flusso della confessione di Clelia, ottantaduenne, mimava quanto era accaduto quel giorno lontano, ormai sideralmente perduto. Ma non nella sua memoria (che saltellava intorno al 1921, ma tutto era accaduto prima, nel 1915), ravvivata dalla curiosità del giovane che l’ascoltava, e che sarebbe diventato a sua volta un singolarissimo scrittore, Giuseppe Marcenaro. L’istrionica signora trasformava, nelle sue parole, l’appartamento della riviera ligure di ponente – siamo a Spotorno –, nella remota casa di Genova: i mobili si rovesciavano nel ricordo di quello stravagante sconvolto, dentro e fuori, che andava a sbattere dappertutto. Era tornata indietro di cinquant’anni e più in una manciata di istanti, ma non aveva previsto le conseguenze del suo teatro degli spettri: Dino Campana era di colpo apparso nella stanza, anche se lei avrebbe voluto lasciarlo nel giardino protetto delle chiacchiere bizzarre. Anche l’aspirante scrittore aveva provato un qualche turbamento: “E mai, come da Clelia Sbarbaro, trovato in nessuna rievocazione, ho inteso raccontare con così forte espressività l’arrivo di Dino Campana […] In piedi ne imitò il cammino orchesco e pesante. Il passo di uno zombie. Inaspettata esibizione”. 


Era l’ombra di un’altra ombra, quella che si portava addosso il peso dell’albatros goffo di Baudelaire, nonché il fardello di essere Rimbaud redivivo, fuori tempo massimo. Era il fantasma di un animale braccato, che non aveva le suole di vento del poeta del Battello ebbro – la più famosa lirica di Rimbaud –, e che, a differenza sua, non sapeva scivolare leggero, come una barchetta di carta, al di là della vita e della poesia, magari nel deserto inesistente di una qualche Harrar. La patria africana, etiope, del francese, nato a Charleville, che si era fatto laggiù mercante d’armi. Come a dire, una località isolatissima, in cui esiliarsi per vivere un’altra vita, del tutto diversa da quella che ci era toccata in sorte. Idealmente i destini dei due poeti, il mito alato e la sua più dolorosa reincarnazione, Rimbaud e Campana, si sono divisi nella scelta di mondi compiuta nel porto di Genova. Ma uno era, da lì, volato via per sempre, nell’effimero tra l’Africa e Marsiglia: un lampo di ritorno giusto per morire. Invece, Campana non ha fatto, nelle sue divagazioni intercontinentali, che girare in tondo, con pesantezza esistenziale e ripetizione fisica, tornando, andando, a Lanterna spenta, in uno scassato tram oceanico fino in America, a Buenos Aires, una delle sue mete di girovago (dalla Svizzera a Odessa, da Parigi fino, appunto, al Nuovo mondo). E inevitabile corsa all’indietro. La liberazione agognata era subito passata, il vagheggiamento dell’istante divino era sempre possibile ma ripiombava ogni volta nella noia e nella follia: “L’acqua a volte mi pareva musicale, poi tutto ricadeva in un rombo e la terra e la luce mi erano strappate inconsciamente. Come amavo, ricordo, il tonfo sordo della prora che si sprofonda nell’onda che la raccoglie e la culla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nel mentre il battello è una casa scossa dal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria, una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danza bizzarre che la scuotono!”. 
Una sarabanda di volteggi e tonfi, fino al salotto genovese, magicamente trasferito per l’occasione in quel di Spotorno. Dino Campana, seguendo l’inganno estroso di Clelia, era tornato, nuovamente allo sbando, con la consueta disperazione, per l’orrore gigionesco della vecchia signora; e per lo sguardo stupefatto di Marcenaro, assetato di ectoplasmi novecenteschi. Uno choc rivissuto molte volte, con lo sbalordimento e la confusione meravigliata della prima, che può essere, in un cortocircuito tipico di questi intrecci tra vita e letteratura, ancora oggi l’effetto che prova chi si accosta, pur non del tutto sprovveduto, alla poesia visionaria di Campana. Non puramente visiva, come sosteneva invece in un suo celebre paragone il filologo e critico Gianfranco Contini, opponendogli l’arte veggente di Rimbaud. 


Balbettava, nel novembre del ‘71, qualcosa di commento e di scusa l’altro spettro rievocato, Camillo Sbarbaro, un po’ imbarazzato, di fronte alla sorella e all’ospite, di quel malconcio, malato non solo di sacro, artistico fuoco, trascinato lì: “Natura coi poeti è spietata. […] Che fu la mia gioventù se non questo disancorato vagabondare? […] Marionetta tragicomica, unico protagonista d’un’avventura disumana. Spugna tetra che s’imbeveva di sensazioni. Adesso, da quando?”. Il giorno che si rincontrarono in Piazza Sarzano, nel cuore dell’antica Genova, Sbarbaro in realtà non lo aveva dimenticato. L’anno precedente, Dino si aggirava tra i caffè di Firenze, in particolare al Paszkowki, celebre ritrovo di poeti e artisti, e Milo (come lo chiamava Clelia) lo aveva visto, lì, per la prima volta e ritratto nel negativo fotografico della sua mente. Campana distribuiva o vendeva, a seconda delle simpatie, agli avventori un libro strano, appena stampato, nel giugno del 1914 a sue spese, e che stracciava all’occorrenza di alcune pagine, se non riteneva il compratore degno di essere iniziato a tali altezze: “Sghignazzava, muoveva le membra disordinatamente. Un disagio nasceva intorno a lui come potesse di punto in bianco, sventatamente, cavar di tasca qualche cosa d’insanguinato. Quella volta s’era tolto di seno per me i Canti Orfici, che si portava addosso come un certificato di nascita”. 


Del resto, nell’ansia di vedere il proprio libro pubblicato –  il cui nome era allora Il più lungo giorno –, e dopo averlo incautamente affidato il 10 dicembre 1913 a Giovanni Papini, direttore della rivista “Lacerba” – questi se ne laverà le mani, dandolo al collega condirettore, Ardengo Soffici –, Campana aveva scritto, non molto dopo, il 6 gennaio del ‘14, a Giuseppe Prezzolini, confessando il suo “bisogno d’essere stampato: per provarmi che esisto”. La storia si sa come andò: Soffici smarrì il manoscritto, traslocando da una stanza all’altra i suoi libri, e, come ricordava anni dopo, “il libriccino era andato confuso nel gran sottosopra”. Certo, Soffici, proprio il rimbaldiano Soffici (sommo custode del culto del poeta di Charleville in Italia), non credeva di aver fatto gran danno: “e domandavo tempo per rintracciarlo. Tentai di farlo: ma inutilmente: pensavo del resto che la cosa non fosse di grandissima urgenza”. Per uno di quei refusi della sorte, sono nati i Canti Orfici. Dallo sforzo e dalla tensione di Campana di riscrivere a memoria l’unica testimonianza della sua opera, dal rimpianto di non riuscire a raggiungere il capolavoro perduto (e ritrovato poi anni dopo, proprio nel 1971, mostrando la superiorità della seconda versione), è fuoriuscita una poesia nuova, più ricca e radicalmente vertiginosa. E, parallelamente, una slavina di bestemmie incardinate lungo gli errori di battitura, e di correzioni, oro, postumo, della filologia, disseminate a penna anche su alcune copie della futura edizione a stampa. 


Ma tutto questo travaglio, forse, Milo, in piazza Sarzano, intuendolo, fingeva di non saperlo, lasciando spazio ai versi di Dino, che gli sgorgavano in mezzo alle labbra. Tra loro comunque i due poeti si capivano, parlavano, nel segreto della letteratura, la stessa lingua: “Allora alla bocca, naturalmente, a me? a lui? vennero le sue parole”. Sbarbaro ricorda a Campana stesso i suoi ricordi di viaggio: di quello sudamericano, o, più banalmente, le impressioni di quella stessa piazza Sarzano, vista molto tempo prima. Sono memorie trasfigurate nei versi dei Canti Orfici, che Sbarbaro ha ormai divorato e assorbito. In un sussulto sognante, travolto dal flusso di quella poesia, da lui stesso rievocata, Milo invita Dino a partire insieme per un nuovo, fantastico viaggio. Ma questi, ironicamente, lo riporta alla realtà, dissolve per un istante la propria confusione mentale, e gli dice lucido, anzi, lapidario: “e io sono giunto”. L’avventura di Campana era dunque, consapevolmente, finita? Due anni dopo, a Parigi, un altro della schiatta degli erranti, erotici, eretici, il futuro pittore delle Amalassunte e angeli ribelli, Osvaldo Licini, riformato dalla prima guerra mondiale e mandato in convalescenza nella rutilante vita parigina, citerà, per domarne la collera avvinazzata, a un rissoso Amedeo Modigliani – che gli rispondeva, alla ricerca di un contraltare degno, nientemeno che con Dante – impressionanti bagliori cromatici campananiani: “Nella stanza un odor di putredine: c’è / Nella stanza una piaga rossa languente. / Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste / di velluto: / E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è / Nel cuore della sera c’è, / Sempre una piaga rossa languente”.

I suoi  versi circolavano già nell’aria, oltralpe: dove e come Licini li avesse letti o conosciuti, mandandoli a memoria, il suo Ricordo di Modigliani, testo scritto per commemorare l’amico artista, non lo dice: “Varcaron lentamente in un azzurreggiare. / Lontani tinti dei varii colori / dai più lontani silenzii / Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave / Già cieca varcando battendo la tenebra / Coi nostri naufraghi cuori / Battendo la tenebra l’ala celeste sul mare”.

Vagavano liberi, senza nemmeno l’ausilio del libro faticosamente rimesso in piedi, e dando forse ragione alla leggerezza di Soffici. Una tale poesia non ha l’urgenza della carta di secondo ordine delle prime edizioni novecentesche: cammina da sola, per cantori improvvisati ma d’eccezione. A quel tempo, invece, l’uomo, che aveva sostenuto, malamente, il poeta nei suoi viaggi e nelle sue crisi, stava percorrendo l’ultimissimo tratto, allietato a momenti – da cui nascono poche ma splendide liriche – dall’amore con la scrittrice Sibilla Aleramo, verso la chiusura definitiva in manicomio, a Castel Pulci. Vi morirà, dopo quattordici anni di reclusione, nel 1932. L’epigrafe perfetta per la sua vita se l’era già preparata con sofferta e inconsapevole sagacia: “Solo il dolore è vero”. Bello, a patto che se ne considerino i frutti, i sublimi trascendimenti, più che la compassione, pur umanissima e comprensibile, per i residui o precipitati biografici, rimasti in fondo all’alchimia del verbo. 


Oggi siamo privilegiati, esentati dal disordine del recupero filologico fai-da-te di fronte ai problemi sorti tra edito e inedito (taccuini, liriche sparse), tra poesie e lettere, quindi tra carte ritrovate e suggestioni incancellabili: è finalmente possibile leggere l’opera di questo poeta tanto discusso e inclassificabile sul filo di un unico, poderoso volume, uscito nei “Meridiani” Mondadori con la curatela appassionata e rigorosissima di Gianni Turchetta. Si tratta con evidenza dell’approdo amoroso di una vita di studi al servizio di Campana. Che cosa sono, nella lettura di Turchetta, i Canti Orfici? Si legge nella raffinata introduzione, che cerca di collocare, senza perdere in complessità, Campana sulla scena delle grandi esperienze artistiche e filosofiche europee ed americane, da Nietzsche a Whitman, tra Ottocento e Novecento: “l’inesauribile riserva di senso messa in moto dalla poesia di Campana congiunge una costitutiva instabilità a una scommessa radicale sul persistere valoriale della poesia, sulla sua capacità di dire ancora la verità proprio del mondo che parrebbe distruggerla, come ha dichiarato lui. In qualche modo, in qualche nicchia, la poesia e la letteratura resistono, e la loro resistenza implica anche una residua fiducia nella possibilità di fronteggiare la molteplicità della vita e di amarla. […] forse abbiamo ancora bisogno di immagini che ritornano all’infinito e però non muoiono, anzi continuano a parlarci, come quelle che ci ha lasciato Campana”. Dunque, il riscatto che la poesia, questa perenne perdente, questa distruttrice del mondo, offre alla modernità, flusso, fin dal suo principio, liquido e indiscriminato di immagini e rumori futili e amalgamati, è un momento di eternità. Rende divino tutto il reale, proprio quando ne dichiara la fine. E lo sbalestra in un altro universo, rovesciando nell’infinito, quello vero di cui è assetato il desiderio di un poeta come Campana, la apparente, concreta saggezza di chi cerca nella vita l’ordine dell’universo. Secondo Turchetta, il tempo attuale in cui ci è capitato di vivere può trarre una lezione preziosa e irrinunciabile da questo poeta sempre vagabondo, sempre alla ricerca di una modesta sopravvivenza, simile a quella di tanti migranti contemporanei, tra la Svizzera, la Francia e l’Argentina. Tuttavia, precisa lo studioso, è solo, in parte, un’impressione, o il rischio di una percezione che non si guarda profondamente indietro. La poesia di Campana coincide totalmente, allora, con il tragico e corrosivo “destino della modernità”. Lo percorre e lo affronta, in nome suo e di tutti gli altri uomini. Era, sì, giunto dopo Rimbaud: ma dove il primo aveva disertato per la propria salvezza, Campana era rimasto a combattere, eterno soldato, dentro la notte dell’incertezza.

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