Il cardellino incorporava il sottofondo sonoro domestico di ricche e povere dimore come oggi il televisore lasciato acceso per pura compagnia (foto Ansa) 

Non c'è Napoli senza cardillo

Francesco Palmieri

Non serve possedere un cardellino in piume e ossa: è diventato un’idea, un’essenza. Grazie a poesie, canzoni, racconti

 

“Sento, e anche lui la sente, spero, la voce del Cardillo”
Anna Maria Ortese, “Il cardillo addolorato”)

   

C’è un allegro fantasma che è scomparso ma non se ne va. Cantava tra balconi e verandine, nelle botteghe dei barbieri, dai giardini nascosti nei palazzi e nelle vecchie portinerie di legno; la radio gli fece concorrenza ma non lo soppiantò, anzi ne copiò il cinguettìo nel segnale di intervallo. Incorporava il sottofondo sonoro domestico di ricche e povere dimore come oggi il televisore lasciato acceso per pura compagnia, ma a lui non si poteva dettare il canto come si cambia canale né pretendere che adattasse il tono alle vicende casalinghe: anche nelle più tristi circostanze avrebbe potuto gioiosamente trillare, godendo della sola libertà consentitagli dalla prigionia in un mondo che non percepiva troppo crudele chiuderlo nella gabbietta. Il cardellino, un canarino, il fringuello o l’ibrido “canario incardellato” animarono il genius musicale napoletano e ne divennero essi stessi inconsapevoli artefici.

 
Gravato di una leggenda che lo eleggeva a partecipe della Passione di Cristo, il cardellino pure assurse a testimone delle passioni umane più sensuali e a protagonista di canzoni, opere buffe, operette morali. Ben prima che Salvatore Di Giacomo e Libero Bovio gli dedicassero versi, fece riflettere Giacomo Leopardi: nella sua definitiva permanenza napoletana dovette ascoltare molte volte la popolare melodia di Lu cardillo. Il regista Mario Martone la fa fischiettare al sodale del poeta, Antonio Ranieri, ne Il giovane favoloso, e colloca nei propri film il cardellino come un simbolo ricorrente: la voce della Natura che a ogni drammatica svolta della Storia, dalla fine delle Due Sicilie al tramonto della Belle Époque, si perpetua infrangibile nel canto.

 
Coi suoi gorgheggi di vana e necessaria poesia, il cardellino resta compagno di ogni uomo sovrastato dagli eventi di cui è soltanto perenne spettatore sballottato dalla Storia come un Ebreo Errante. Cresciuto tra Palazzo Cellamare e i Quartieri Spagnoli, quando quegli uccellini erano ancora frequenti nelle case, Martone fece dell’uomo col cardillo un vero e proprio apologo nel film Noi credevamo, dedicato all’epopea risorgimentale. Nel Cilento del 1862, poco dopo l’unità d’Italia, un sarto immiserito della seteria modello di San Leucio rimpiange i Borbone, piange le personali illusioni svanite e diffida dei “combattenti” del progresso, quelli che “si levano di buon mattino” per “rifare il mondo, che tanto è stato fatto e rifatto sempre male”. Confessa di avere perso “anni di bellezza e di splendore” ma smentisce l’idea di avere perso tutto: “Non è vero”, dice, “tengo ’o cardillo”. La melanconica melodia che fischietta, Fenesta vascia, era così fuori moda allora che oggi viene ricordata più dei canti garibaldini. Chi tiene il cardillo sa che il tempo è feroce, ma pure galantuomo.

 
Congedato dalle attuali abitazioni ma solo parzialmente, perché la sua cattura illegale prosegue in Campania come altrove, non è indispensabile possederlo in piume e ossa quando è diventato un’idea, una essenza, una disposizione poetica o filosofica. Per riascoltarne la voce è necessario solo stutare il telefono, assecondando l’invito del maestro Riccardo Muti nel concerto natalizio in Senato. Non è solo un silenzio dovuto alla musica: c’è chi ascolta il cardillo dentro l’animo per una incomprimibile voglia di libertà, magari durante una noiosa riunione aziendale dove comincia a cinguettare come il funzionario dell’Ibm Luca Perrella, protagonista abbastanza autobiografico del libro Zio Cardellino di Luciano De Crescenzo, sognatore di un’altra vita. E c’è chi sogna nella stessa vita un’altra leggerezza, perché abita in un caotico quartiere senza mare e vagheggia di svegliarsi nella più morbida atmosfera della Riviera di Chiaia, “al cinguettio dei cardilli tenuti in gabbia da quegli appassionati che vanno a cercarli apposta pagandoli cifre esagerate”; sicché immagina il “grande appartamento di un palazzo antico, un po’ umido e ombroso, ravvivato dal cinguettare dei cardilli che sale dai cortili e si diffonde in un’aria che sa di muffa leggera”: così scrive Antonio Franchini nel suo ultimo romanzo Il fuoco che ti porti dentro.

   
Ci fu poi chi traslocò in un palazzo dalla tetra nomea spiritica, come la coppia infelice di Questi fantasmi! di Eduardo De Filippo nel film tv diretto da Alessandro Gassmann e trasmesso da Rai 1 nei giorni scorsi, che non tradisce la commedia sull’ambiguo rapporto tra ombre e realtà. Nei chiaroscuri del vasto appartamento nobiliare si smargina il confine tra ingenuità e vile acquiescenza al tradimento coniugale, tra defunti falsi e i vivi d’animo già morto, e al centro della storia c’è la gabbietta con il canarino dove il finto fantasma amante della moglie lascia mazzette di quattrini. Ne beneficia il credulo marito per opportunismo o per rifiuto della verità (Eduardo nel copione previde l’uccellino ma scelse per deposito dei soldi “spiritati” una giacca da camera).

  
Nelle stanze dove s’amava e si tradiva, si rideva o si piangeva, ineffabile continuava il gorgheggio: “Io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita” scrisse Leopardi, ma è dubbio che contento fosse l’uccellino che talvolta veniva persino privato della vista per cantare meglio. Giovanni Pascoli dedicò al fringuello accecato una lirica struggente, come struggente fu la biografia di Antonio Silvio, musico ambulante che ebbe l’onore della fama postuma: don Antonio ’o cecato diventò un sinonimo di suonatore quasi favorito, come il fringuello, dalla disgrazia della cecità, però aveva concluso l’esistenza in miseria impegnando il violino per tre lire (mentre più o meno negli stessi anni l’abbiente Eduardo Scarpetta intitolava ’Nu frongillo cecato una commedia ridanciana per gusti semplicissimi).

  
Il canto degli uccellini, tra strade prive di verde e vicoli scuri, riavvicinava alla Natura e alimentava la poesia. Giovanni Panza, che fu anche pittore di maniera per la borghesia partenopea, omaggiò un cardillo che sfuggito alla cattura torna a cinguettare come “amico cortese” sulla sua “loggetella” alle cinque del mattino. S’alza dal letto apposta per sentirlo, perché “chillo vene pe mme, pe mme sultanto”.

 
C’è invece il cardillo regalato a una sciantosa che intanto ha fatto fortuna e dimentica l’innamorato. Il cinguettìo contrassegna i mancati appuntamenti e quelli ricordati del passato, perciò il protagonista apre la gabbia per farlo volar via come s’è involata Reginella, sperando che trovi una padrona sincera “ca è cchiù degna ’e sentirte ’e cantà”. Anche Bovio, paroliere di questo classico famoso, possedeva un quadro di Panza riprodotto su una copertina delle sue opere. Raffigurava un ambulante col pianino. Girarono per le strade finché l’ambiente acustico della città lo permise e la concorrenza fu quella statica dei jukebox e dei grossi mangiadischi, poi i pianini scomparvero attorno agli anni Sessanta del secolo scorso. Nelle storie della canzone si rievoca la ditta di Vittorio Fassone, che coniugò arte e impresa, profitto e passione, perché compose anche la musica di molte canzoni e la più nota resta forse ’A tazza ’e cafè con versi di Giuseppe Capaldo, cameriere di un bar.


Di caffè profumavano al mattino le cucine, e verso mezzogiorno delle pietanze già in cottura. Era l’epoca di polli e conigli giustiziati in casa, ma come Shahrazad raccontando mille storie, il cardellino attraversava indenne ogni Pasqua e Natale perché sapeva cantare.


C’è una ferocia in certe antiche canzoni d’amore anche se inzuccherata di metafore. E’ nascosta nelle strofe successive alla prima, che coi decenni vengono dimenticate e che solo i professionisti eseguono a memoria. Lu cardillo rimonta al primo Ottocento ma è stata ricantata in versione reggae dal gruppo napoletano dei 24 Grana rispettando il testo: il padrone vuol addestrare il cardellino come messaggero e spia, portando “ll’immasciate” dei suoi sentimenti e riportando a lui notizie della donna amata, che se dorme sembra una fata e se sta in balcone una rosa nel vaso. Però questa dolce melodia fischiettata da Ranieri e orecchiata da Leopardi contiene pure la minaccia del femminicidio: “Si la truove che face l’ammore / ’Stu curtiello annascunnete ccà / ’Nficcancillo deritto allu core / E lu sango tu m’aje da purtà”. Poveri cardilli e canarini, testimoni incolpevoli di tresche o istigati al delitto per gelosia. Oggi non possiamo più riderne forse perché ridiamo peggio che nel Settecento, il secolo teatrale dei drammi giocosi: I visionarj di Giovanni Bertati cambiò più tardi il titolo ne Gli astrologi immaginari con musica di Giovanni Paisiello, ma nella prima versione la partitura fu affidata al maestro di cappella Gennaro Astarita. Il personaggio più ridicolo dell’opera è il “filosofo” Petronio, archetipo di stravaganti esoteristi che, pullulati tra nomi seri come Giambattista Della Porta e Raimondo di Sangro, a Napoli non sono mai mancati. Don Petronio è interessato alla “lingua degli uccelli”: “Sapete voi”, chiede al giovane Giuliano che pretende la mano della figlia, “che chi avesse la cognizion di tal favella oscura / Ogni arcano saprìa della natura?”. Gli uccelli, spiega il visionario, discorrono tra loro: c’è l’usignolo, c’è l’allodola e c’è ovviamente il cardellino che fa “girì-girì-geri”. Lui non consegnerà la figlia a un profano che non intende quei vocabolari.


Pretendenti d’amore e donne pretese: un ricorrente paradigma su cui mille trame si cuciono a teatro. Il maestro Astarita ci metteva musica deliziosa ma nella vita privata fu fin troppo riservato e con qualche ragione. Se ne sa più o meno quel che ne riferì Paisiello: all’artista riconobbe stile “piacevole e naturale”, che “gli conciliò da per tutto il favore del pubblico benché i conoscitori portassero qualche volta un’opinione differente”. Sferzò piuttosto la sua immoralità: “E’ stato un uomo di pessimi costumi. Fuggì da Napoli per avere, insieme con un altro birbante, recato oltraggio a una fanciulla, in una strada, di notte. Andò in Moscovia e vi si mostrò egualmente pessimo uomo. Morì fuori patria, miserabile e detestato”.


Più piacevoli e meno rischiose delle strade notturne erano le finestre. Di Giacomo intitolò Da li ffeneste il sonetto che descrive una cotta per la dirimpettaia. Il cardellino entra nella poesia per via indiretta perché la ragazza, che si chiama Rosa, seduce proprio intonando Lu cardillo. E’ una città dipinta come idillio, di “sensualità temperata di malinconia”, di “desiderio soffuso di nostalgia”, che il filosofo Adriano Tilgher (come tanti periodicamente dopo di lui) già dava per finita nel 1930. Stravolta dal “diluvio”, ossia dalla Prima guerra mondiale, la donna aveva perso “quell’alone sacro”. Diveniva “oggetto di brutali dichiarazioni di guerra o di brevi e furiosi attacchi senza nemmeno lo straccio di carta di un ultimatum”. Fine dell’amore romantico. Chiusura delle finestre. Nelle elucubrazioni di Tilgher già s’intravede la remotissima genesi del rap e comunque ebbe torto: Lu cardillo si ricanta anche se diventa reggae e i cardellini hanno lasciato i vicoli. “Da tante cose dipende la celebrità de’ libri!” si legge ne I promessi sposi. Per la musica è vero ancora di più.


Riaccendendo i telefonini stutati, nell’ultima mezzanotte del 2024 Liberato ha pubblicato il nuovo album con una sorpresa che ne riserva un’altra: il videoclip del brano Turnà, cover della famosa canzone di Teresa De Sio, è il primo realizzato in Italia con l’intelligenza artificiale. Immagini di Napoli vi si rincorrono senza spazi di riflessione, come sulla spinta del vento karmico descritto nel Libro tibetano dei morti. Il fantasmino dell’intelligenza artificiale sancisce un nuovo impiego artistico grazie al fantasmatico cantautore napoletano: di Liberato, come della scrittrice Elena Ferrante, nessuno sa l’identità anche se quasi tutti si vantano di conoscerla. Come l’usignolo della fiaba di Hans Christian Andersen ispiratore di un’opera di Igor Stravinskij, che alla fine ebbe la meglio sull’uccellino meccanico, gli artisti che non temono le innovazioni non ne saranno sopraffatti. Continueranno come i cardilli.