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Chi è il proprietario di questo articolo? Un saggio su scrittura e libertà

Antonio Gurrado

Riflessioni su vizi e virtù del diritto d’autore a partire dal libro “Il capitalismo della creatività” di David Bellos e Alexandre Montagu

Nel momento in cui leggete quest’articolo, anzi questa stessa frase, avete per le mani un oggetto duplice: è materiale, in quanto supporto di carta o tecnologico su cui si posano i vostri occhi; è immateriale, in quanto concetto trasmesso dalle parole il cui senso si imprime nel vostro cervello. Ora, è piuttosto facile individuare chi sia il possessore dell’oggetto materiale: voi, in quanto acquirenti del supporto, o l’azienda proprietaria, in quanto detentrice della testata. Diventa più complicato capire invece a chi appartenga quest’idea, quest’articolo, questa frase che in quest’istante parla alla vostra mente. “Who owns this sentence?” è esattamente la domanda che David Bellos e Alexandre Montagu si sono posti nel titolo del saggio in cui fanno il punto su passato, presente e futuro del diritto d’autore, e che è appena uscito per Marsilio col titolo “Il capitalismo della creatività”, traduttore Davide Martirani.

 

La collaborazione fra un grande storico della letteratura (Bellos) e il titolare di uno dei più grandi studi specializzati in proprietà intellettuale (Montagu) dà quasi le vertigini per la mole di informazioni – tecniche e aneddotiche – che il volume contiene, pur mantenendosi sempre scorrevole.

 

A voler sfrondare, i concetti chiave che ne emergono sono tre.

 

Il primo è che la storia del diritto d’autore è essa stessa il diritto d’autore: nel senso che, giuridicamente, la legge in materia coincide con la progressiva evoluzione del concetto. E’ un aspetto specifico che differenzia radicalmente il diritto d’autore da altri rami della giurisprudenza, che affondano le radici in principii astratti tradizionalmente ritenuti antecedenti rispetto alla stesura della legge (ad esempio, semplificando, il principio del non uccidere). Non può esistere, insomma, un giusnaturalismo del diritto d’autore e ciò fa sì che, di volta in volta, nel corso dei secoli esso sia stato ciò che la legge ha ritenuto giusto che fosse, non sempre accordandosi con la sensibilità popolare in merito.

   

Secondo aspetto notevole è che il diritto d’autore non è sempre il diritto d’autore: se il concetto di droit d’auteur è nato in Francia e si è affermato nell’Europa continentale, gli preesisteva in Inghilterra il concetto di copyright, che tuttora spadroneggia nel mondo anglosassone e quindi è il pilastro dell’egemonia statunitense in materia. La differenza non è da poco. Il droit d’auteur è imperniato sulla tutela della persona, ossia dell’individuo da cui è sgorgata l’opera d’ingegno e, eventualmente, dei suoi eredi per qualche decennio (anche se Victor Hugo era contrario all’idea che suo figlio accumulasse guadagni postumi sul lavoro paterno); il copyright, invece, si fonda sulla difesa dell’opera da orde di riproduttori, imitatori e parodisti.

 

Quest’asimmetria ha non solo reso complicatissima, diciamo anche irrealizzabile, l’uniformità di applicazione della legge su tutto il globo, ma ha finito per avere un effetto collaterale che costituisce il terzo aspetto degno di nota. E’ grazie alla prevalenza del copyright sul droit d’auteur, infatti, che è invalsa la concezione secondo cui tutto possa essere opera d’ingegno e, di conseguenza, possa appartenere anche a istituzioni, aziende, entità disincarnate – le quali, a differenza dei comuni mortali, sopravvivono indefinitamente. L’effetto immediato non riguarda solo noi miseri scribacchini e i nostri simili imbrattatele, musicanti, istrioni. Ha invece portata universale, con gravi implicazioni politiche. E’ ovvio infatti che, dal momento in cui qualsiasi idea può essere registrata con la © e ascritta in esclusiva a un ente sovrapersonale, il suo utilizzo cessa di essere libero, causando questo preoccupante paradosso: la società che non tutela in alcun modo il diritto d’autore è preda di disinformazione, complottismo, eversione; quella che tutela perfettamente il copyright è invece una società dittatoriale, in cui nessuno è più padrone di dire niente, poiché tutto è proprietà di una qualche ditta immortale.

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