Facce dispari

La pittura senza schemi di Antonella Cappuccio: “L'arte è un gioco che non finisce mai”

Francesco Palmieri

Neomanierista, prima di dedicarsi alla pittura sacra e profana, attingendo alla letteratura e al teatro. "La mia opera assorbe da ogni fonte. Non esiste una strada di per sé, la strada si fa andando". Intervista

Il motto ficiniano “Iocari serio et studiosissime ludere” potrebbe stare inciso sull’ex scuderia del palazzo di Trastevere dove lavora – e si diverte – Antonella Cappuccio, artista dispari prima di tutto perché non si sa a quale casella ascriverla. È stata fra i neomanieristi
poi ha proseguito da sola tra pittura sacra e profana, attingendo alla letteratura e al teatro, impiegando tecniche tradizionali dall’olio al pastello all’incisione, e tecniche o materiali non convenzionali come il plexiglass.

Utilizza stoffe e carta, l’ago e il filo, poi torna ai pennelli e alla matita. Ha appassionato alla sua opera anche i tre figli e li ha tenuti talvolta per modelli. Nessuno ne ha seguito le orme ma tutti e tre si sono dedicati all’arte preferendo il cinema: Gabriele, Laura e Silvio Muccino (che si è votato pure alla scrittura). Marco Bussagli l’ha definita “un caso più unico che raro nella storia della pittura
italiana”; Paolo Portoghesi ne ha apprezzato la “spontanea attitudine a ‘figurare’ in un mondo che spesso vedeva in questa attitudine qualcosa di anacronistico e richiedeva, come simbolo di modernità, la deformazione”.

Lei ha dipinto santi, sirene, tarocchi, attori, papi, fantasmi. Cosa governa l’ispirazione?
Vado ogni giorno a studio come un contadino sul campo. Prima di cominciare un’opera, o una serie di opere, ho sempre in mente un progetto. Altrimenti diventa un’esperienza velleitaria, che non segue il filo di un discorso.

Dove lo cerca?
Ascoltando, leggendo, camminando. Sono molto curiosa. Trovai da un rigattiere a Londra un fascio di lettere di soldati della Seconda guerra mondiale e su quelle grafie nacquero i disegni per una mostra in cui li vendetti tutti. Un altro esempio è la serie
“Promesse mantenute” per un progetto Telethon: mi ispirai alle fotografie di 60 celebri italiani quando erano bambini.
 

Raffigurando ciascuno con gli attributi premonitori del proprio destino.
Con un po’ di sorprese: Quasimodo, per esempio, da piccolo era assai grazioso.

Quanto si diverte?
Moltissimo. L’ironia è facile, l’autoironia un po’ meno ma ci vuole: se non sai ridere di te l’intelligenza diventa asettica e supponente. L’autostima è un’altra cosa: nasce dalla fatica,  e quando la acquisisci ti permette di non dipendere dagli altri e di lasciar andare ciò che non ti appartiene. Non devi più piacere per forza. Anzi: nun te passa manco p’’a capa.

È la sua matrice napoletana?
Sono nata a Ischia perché mio padre durante la guerra portò la famiglia nell’isola per sfuggire ai bombardamenti. Sarà stato l’influsso vulcanico del monte Epomeo a darmi l’imprinting. Ricordo che una volta Gabriele, studente al liceo Mamiani, portò i compagni di
classe al mio studio. Fui così entusiasta di mostrare tutte le mie opere che quando se ne andarono uno disse: “’A Gabrie’, tua mamma pippa?”. Forse avrei dovuto fare qualche torta in più, ma l’arte è gioia che deborda soprattutto con chi ti è più vicino.

È parallela o intrecciata agli eventi biografici?
Vi s’intreccia. Quando realizzai il ciclo sulla “Primavera” del Botticelli ero incinta di Silvio. Ogni mese di gravidanza facevo un’opera su tavola. L’ultima, la più grande, la terminai dieci giorni prima del parto.

Perché non cominciò da pittrice ma da costumista?
Per le famiglie di una volta, la donna artista evocava quasi una poco di buono. Così studiai scenografia e storia del costume. C’eravamo trasferiti a Roma ed ebbi la fortuna di imparare da Maria Baroni e Dario Cecchi. Cominciai giovanissima a lavorare da assistente e poi costumista con Majano, Bolchi, D’Anza, Wertmüller. Per gli sceneggiati della Rai, per il cinema e il teatro. Però continuavo a disegnare. Mi avviai alla pittura quando stavo in Africa.

Che ci faceva?
Accompagnai in trasferta per un anno mio marito, dirigente televisivo, con un gruppo di italiani mandati a istruire i libici per la loro nascente tv. Avevo un bimbo di due anni e mi annoiavo, e nulla è meglio della noia per stimolare la creatività. Per il compleanno del
1969 mi regalarono tubetti di colore e una tela. Cominciai e non mi fermai più. Intanto nacque Laura. Quando fu grandicella la invitai a dipingere ma disse: “Se poi non diventerò più brava di te ci guasteremo”.

La prima esposizione?
Nel ’76, presentata da Dacia Maraini che conobbi grazie a Paolo Poli. I miei primi quadri esprimevano significati e simboli con i vestiti vuoti, perché è l’abito che indossi a dominarti, è una sorta di automanipolazione. Il lavoro di costumista insegna a comprendere bene
questo linguaggio.


Che lei ha contaminato con letteratura, musica, cinema.
Senza barriere. Ho appena riletto “Anna Karenina” e “Resurrezione” e tra poco ricomincio per la quarta volta la “Recherche”. Poi ascolto Beethoven, Brahms, Satie, Rachmaninov. La mia pittura assorbe da ogni fonte. Non esiste una strada di per sé, la strada si fa andando.

L’ultima mostra?
A Castellabate. Da sei mesi. Non quadri ma teatrini realizzati in cartapesta.

E a cosa lavora?
Al libro di un editore inglese per il Giubileo, con trenta disegni che illustrano altrettante frasi di Gesù e che sarà donato al Papa. Poi sto ultimando una Madonna per la cappella di una villa a Stresa.

Una sala dell’Aula Paolo VI è decorata con quattro suoi dipinti sulla vita di San Pietro. La pittura sacra presume fede o si presta a un approccio laico?
A me viene naturale da credente. Non sono una bigotta ma ho un rapporto di amicizia con il “Principale”. Non ho il suo cellulare ma quando l’ho cercato ha sempre risposto.

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