Gilles Deleuze insieme al filosofo Felix Guettari in Francia nel 1980 (foto Getty)

Filosofia e buio

Cent'anni di Deleuze. Contemplare il mistero del mondo, invece di ragionare su parole sfilacciate

Tommaso Tuppini

Se vuol essere radicale, il pensiero deve saper attraversare la contemplazione del nostro luogo di provenienza. Ma in una società del controllo dove siamo maestri nell’arte di tenerci d’occhio l’uno con l’altro, il mondo non sta da nessuna parte. E il secolo non è ancora deleuziano

Forse un giorno il secolo sarà deleuziano, diceva Foucault. Non sono sicuro che la profezia si sia avverata. Nel frattempo sono passati 100 anni dalla nascita di Gilles Deleuze. Il successo clamoroso del suo pensiero è stato anche una reazione al linguaggismo della filosofia: il piacere perverso dei professori che riducono gli affari della vita a questioni di parola, come se le cose essenziali fossero davvero custodite dentro i discorsi, da smontare e analizzare per farne uscire altri discorsi da smontare e analizzare a loro volta, in un gioco di specchi e interminabili rimandi che mette i segni al posto delle cose e preferisce guardare il dito invece della luna che il dito indica. Effettivamente la filosofia accademica, oggi come ieri e come domani, è fatta così: si decanta dentro i libri come il vino nella feccia, perdendo di vista le esperienze su cui i libri dovrebbero pur dirci qualcosa.

Deleuze aveva un senso acutissimo dell’esistenza e il suo pensiero è stato uno squarcio nel tessuto compatto del linguaggismo, non soltanto filosofico: basta pensare al ritornello degli psicanalisti discepoli di Lacan, per i quali l’inconscio è fatto come una trafila di parole, oppure alle ricerche dell’antropologia strutturalista che scambia la vita per un Cubo di Rubik. Quindi, uno squarcio, un buco, un’apertura. Ma verso dove? Cosa resta se le fibre delle parole si sfilacciano e le strutture cadono in pezzi? Qualcosa da contemplare. Nei decenni – i Sessanta, i Settanta, gli Ottanta – in cui i colleghi, senza distinzione di paese, sesso o anagrafe, facevano una filosofia edificante predicando l’engagement e l’attivismo, Deleuze scriveva sull’anima in Plotino, la furia di Achab e la balena bianca, Proust e la madeleine, Sacher-Masoch e la Venere il pelliccia, Lewis Carroll e l’Lsd, la pittura di Francis Bacon, il cinema, impronte di un’esperienza che chiamava “contemplazione di sé, ritorno a sé, ritorno su di sé, contemplazione di ciò da cui noi proveniamo”.

Dunque, tra la Scilla del linguaggismo e la Cariddi dell’agitazione politica, c’è un varco che il pensiero, se vuole essere radicale, deve saper attraversare: la contemplazione del nostro luogo di provenienza, cioè il mondo. Il mondo è capace di contemplare sé quando il treno dell’abitudine deraglia: Ingrid Bergman che in Stromboli assiste alla mattanza dei tonni e all’eruzione dell’Etna, “era orribile…”, “sono finita, ho paura, che mistero, che bellezza, Dio mio…”. Qui non c’è una persona o, come dicono i filosofi, un soggetto davanti a uno spettacolo, un oggetto, ma un mondo che sente se stesso. In quei momenti, soggetto e oggetto, persona e natura, mente e corpo, immagine e realtà, critica e compassione, io e te, le categorie prêt-à-porter che ci sembrano così giuste e necessarie, si cancellano.

Quando le categorie dell’abitudine precipitano nell’indistinzione, l’esperienza, che prima era relativa, diventa assoluta, e allora nasce il mondo. Il secolo sarà deleuziano se ci congederemo da un pensiero sociologizzante che passa e ripassa la spola delle parole sul tessuto delle relazioni e sapremo mettere a fuoco le schegge di assoluto che attraversano il cielo dell’esperienza come asteroidi. Ci abbiamo mai provato? Nei suoi ultimi interventi Deleuze parlava di una società del controllo, la nostra, dove c’è posto per tutto purché tutto stia al suo posto, non perché c’è il fascismo o lo stalinismo, ma perché siamo diventati maestri nell’arte di tenerci d’occhio l’uno con l’altro, prendendo le misure, denunciando, scandalizzandoci e intentando processi a ogni piè sospinto, in nome – ci mancherebbe altro – del bene comune. Invece, il mondo non sta dalla parte del bene. Nemmeno sta dalla parte del male. Il mondo non sta da nessuna parte, perché non è un discorso, una legge, una fede, un fatto o un’azione, ma un evento, una crisi, un segreto non da svelare ma da contemplare, un mistero in piena luce, un buio fosforescente che guarda se stesso attraverso gli occhi di un gatto, animale che fu l’unico vero compagno di vita di quel grande solitario il cui pensiero, nonostante i successi, gli allori, la caterva delle pubblicazioni e le commemorazioni, non abbiamo compreso. Un secolo dopo la sua nascita, il secolo non è ancora deleuziano.
 

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