fede
È la preghiera che, anche oggi, ci mette al riparo da ogni forma di idolatria
Essa è una forma di conversazione interiore con Dio, capace di renderci uomini più consapevoli e in ultimo migliori. Riconoscere che Dio esiste è un’apertura di credito nei confronti della realtà e di noi stessi
In un articolo recente su questo giornale, parlando della preghiera, ho sostenuto una cosa abbastanza ovvia, e cioè che pregare è in ultimo un affidarsi a Dio. Anche quando gli chiediamo qualcosa in realtà riconosciamo sempre che la sua volontà è più importante della nostra e che quindi l’accettiamo per quello che solo lui conosce, disposti persino a riconoscere che sia per il nostro bene che egli non esaudisce ciò che gli chiediamo. Questo era un po’ il succo di quel mio articolo e da qui vorrei ripartire per qualche ulteriore approfondimento.
Almeno in una prospettiva cristiana l’onnipotenza di Dio è tanto reale quanto imperscrutabile, e gli uomini dovrebbero non soltanto accettarla, ma addirittura accettarla con gratitudine. “Ti rendiamo grazie, Signore” è forse il presupposto e l’esito più ragionevole di ogni nostra preghiera. Che è come dire che pregare Dio per qualsiasi cosa è già di per sé un inno di lode. Questo ovviamente in una prospettiva di fede. D’altra parte, che altro atteggiamento si può avere nei confronti di un Dio che è padre onnipotente, creatore e signore del cielo e della terra, rivelatosi in Gesù Cristo come amore e misericordia? Davvero non resta che fare la sua volontà, cioè amare a nostra volta, senza alcuna pretesa di indirizzare il mondo dove noi vorremmo che andasse.
A pensarci bene, sta qui il senso più vero del nostro essere “servi inutili”. Dobbiamo fare tutto il bene che è in nostro potere (le omissioni sarebbero un peccato grave), sapendo che non siamo noi i padroni della storia e che sarebbe presunzione diabolica pretendere di esserlo. Solo Dio lo è. Come insegna Tommaso d’Aquino, un conto è la volontà assoluta di Dio che si manifesta in ciò che accade e della quale non conosciamo il disegno (la divina provvidenza), altro conto e ciò che Dio vuole da noi, ossia il bene che, in coscienza, anche alla luce della Rivelazione, sappiamo invece benissimo in che cosa consiste. Certo, qualche volta la realtà è complicata ed è assai difficile prendere la decisione giusta; il tempo a nostra disposizione è breve e dobbiamo scegliere se fare una cosa oppure farne un’altra; magari ci preghiamo sopra senza che questo ci dia la certezza che faremo la scelta giusta. L’inferno, come si dice, è lastricato di buone intenzioni. Ma proprio per questo ci affidiamo a Dio, che tutto sa e può, con l’umile speranza di essere d’aiuto o quanto meno di non essere d’intralcio al suo disegno provvidenziale. Come “servi inutili”, appunto.
A questo livello emerge forse il carattere più significativo della preghiera, il suo essere una forma di conversazione interiore con Dio, capace di renderci uomini più consapevoli e in ultimo migliori. In un’epoca come la nostra che ama sbandierare ai quattro venti la morte di Dio, questo pensiero può apparire ingenuo o addirittura una superstizione. Ma già i greci, il cui Dio non si curava certo degli uomini, né li amava, riconducevano tutta la bellezza e la grandezza dell’uomo alla sua capacità di contemplare in qualche modo la perfezione di Dio, considerato la vera “misura” per orientarsi nella realtà e con se stessi. A differenza di quanto pensavano i sofisti, Platone e Aristotele ci insegnano infatti che, non l’uomo, ma Dio è la misura di tutte le cose. Giova quindi prestare maggiore attenzione alla questione di Dio. Specialmente se consideriamo che il nostro mondo e le nostre vite non sembrano diventare migliori laddove lo accantoniamo. Al contrario. Relegandolo nell’ambito delle superstizioni, rischiamo fatalmente di sacralizzare al suo posto qualcos’altro: il nostro io, il potere, la scienza, il denaro e via di seguito, con tutte le conseguenze che conosciamo.
Si potrebbe dire pertanto che ciò che oggi rende ancora auspicabile la preghiera come conversazione interiore con Dio è proprio questa sua capacità di metterci al riparo da ogni forma di idolatria. Certo si tratta di una conversazione che inquieta. Non è mai facile vivere la tensione lacerante che si istituisce con qualcosa, anzi, con Qualcuno, che è “totalmente altro” e che nel contempo è “più intimo a noi di noi stessi”, secondo l’immagine di Agostino. Tuttavia è un po’ questo il “giogo dolce” che conviene portare per essere veramente ciò che siamo, senza cadere nel nichilismo banale dell’“ultimo uomo”, come lo chiamava Nietzsche, in un mondo divenuto del tutto insignificante. Se Dio non ci fosse, resterebbe soltanto la mors immortalis di Lucrezio.
Riconoscere che Dio esiste è dunque un’apertura di credito nei confronti della realtà e di noi stessi; un riconoscimento che può venire dalla mente e dal cuore, una preghiera che ci aiuta a riconoscere che tutto è bene, che tutto viene riscattato, che tutto ha senso e che il male, nella sua tragica e lacerante realtà, non avrà l’ultima parola.