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Valéry e una poesia che per raggiungere l'assoluto scivolava nel pomposo

Matteo Marchesini

Dalla costante attrazione verso la figura di Narciso all'incompatibilità tra l’atto di pensare originalmente e l’atto di scrivere per un pubblico. Nell'antologia “Ciò che scrivo non è scrivere”, Andrea Franzoni raccoglie gli appunti aforistici dello scrittore francese

Paul Valéry è una specie di lussuoso bignami della letteratura francese: un Racine dopo Mallarmé, un paradossale classicista orfico, il ponte tra i parnassiani e l’Oulipo. Tiene insieme mistero e clarté, razionalità e magia. Vorrebbe trasformare la poesia in Musica e Architettura, arti di relazioni pure (“puro” è una sua parola-tic) senza riferimento a oggetti reali. Ricorda la dodecafonia, hanno detto Adorno e Giovanni Macchia, secondo il quale questo scrittore costringe “l’ineffabile nel declamato”. Tra ineffabile e declamato c’è il terreno dell’umano, che Valéry però si ostina a evitare: ogni sua composizione (Il Cimitero, la Parca, il Serpente…) parla infatti della vita come di una caduta nel peccato, di un’imperfezione dell’essere. Così la definizione preliminare delle sue condizioni di possibilità diventa più importante dei suoi aspetti concreti. Del resto Valéry non ha mai smesso di teorizzarlo: in “Monsieur Teste”, nel “Leonardo”, e nelle centinaia di “Quaderni” di autoauscultazione intellettuale che ha riempito tra il 1894 e la morte. 

Oggi ne propone un’antologia Andrea Franzoni in “Ciò che scrivo non è scrivere”, pubblicato in collaborazione da Argolibri e Industria&Letteratura. Gli appunti aforistici sono tratti qui da tre quaderni, di cui due inediti in Italia. Valéry vi ribadisce che “La poesia – non è mai stata un fine per me – ma uno strumento, un esercizio”. E ancora: “Il fare come dato principale, e la cosa fatta come accessoria, ecco la mia idea”. E’ il rovescio del mito del Libro Definitivo, che sedusse il suo maestro Mallarmé. Per Valéry un poema edito è sempre e solo “uno stadio all’interno di una serie di elaborazioni”, secondo un’idea cara in seguito alla critica delle varianti. Le correzioni valeriane tendono a ricondurre i versi a una perenne verginità, a una potenzialità intatta. Al poeta non interessa raccontare o esprimere. Vuole abolire gli incidenti esterni, trarre da sé tutte le regole del gioco formale, e rimediare con una “arbitrarietà determinata” all’indeterminabile arbitrarietà del caso. Perciò è costantemente attratto dalla figura di Narciso, da un autistico “vedersi vedersi”. Morto il classicismo vero e proprio, agita il suo fantasma per eludere il caos del destino. Ma la poesia si vendica di questa elusione. 

Nell’ostentato riserbo di Valéry, notava Giacomo Debenedetti, c’è qualcosa di teatrale. Nathalie Sarraute parlò di snobismo, a cui Edumd Wilson riconduceva anche la finzione valeriana di uno stile scientifico. La stessa leggenda della notte di Genova, nella quale il ventenne Paul avrebbe abbandonato provvisoriamente la poesia, ha qualcosa di astratto, un po’ come la conversione dell’Innominato. Che quella notte Valéry abbia in realtà capito di possedere una vena troppo esile, insinua Sarraute, e in età matura l’abbia poi mistificata? Certo i suoi versi, come diceva Debenedetti, sembrano a volte un “sublime già fatto”, ossia sintetico; il che ne spiega l’immediato successo. Avendo rimosso il demonico, Valéry si presta a essere sfruttato in una buona società che accetta acriticamente le autodefinizioni del poeta.

Ma la rimozione impoverisce la sua opera: basta confrontare i “Quaderni” con gli appunti di Baudelaire o di Auden. Spesso Valéry somiglia a una parodia di Kafka, di Kraus o di Beckett. Ha già i difetti di Borges e Calvino, suoi deliziati lettori. Eppure le sue pagine più intense sono proprio quelle dove denuncia l’incompatibilità tra l’atto di pensare originalmente e l’atto di scrivere per un pubblico; e il suo tema più autentico resta la descrizione del modo in cui i sensi secernono l’intelletto, ovvero la “sensazione fisiologica della coscienza”. Al di qua e al di là di una tale descrizione, Valéry scivola nel pomposo. Accade spesso anche in questi paragrafi: che ci ricordano come i puristi, appena credono di poter raggiungere l’assoluto disprezzando le questioni prosaiche, approdano invece a un gusto da accademia piccolo-borghese.  
 

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