Vivien Leigh e Clark Gable in “Via col vento”, 1939 (Getty) 

Il Foglio Weekend

Non solo Los Angeles: incendi e fuochi tra film e letteratura americana

Michele Masneri

Da "Via col vento" al Burning Man 

Mentre Los Angeles continua a bruciare tutti continuano a chiedersi le ragioni dell’incendio nella regione più fiorente della nazione più fiorente del mondo. L’occasione del complotto è troppo ghiotta, anche da queste parti, per accettare l’amara verità (infrastrutture pessime, cavi penzolanti, vecchie abitudini costruttive, innalzamento delle temperature, e volontà di abitare zone che semplicemente non dovrebbero essere abitate, insomma come sulle pendici del Vesuvio o dell’Etna). Ma intanto fioriscono leggende anche intriganti: secondo il senatore Pillon è colpa del gender (che ha sottratto risorse al comune di Los Angeles), a detta della fantasmagorica fiamma del retequattrismo Hoara Borselli è colpa del “green”, qualunque cosa voglia dire. 

 

E però il fuoco, doloso o no, complottaro o no, è parte della cultura americana, dobbiamo accettarlo: libri romanzi immaginario dove la fiamma, specialmente selvaggia, arde incontrollata e di volta in volta purificatrice, distruttrice, punitiva (aiutando anche molto i plot dove il disastro risolve un sacco di situazioni). E chissà come saranno stati gli ultimi giorni del pòro David Lynch, affetto com’era da enfisema, nella casa (disegnata da Frank Lloyd Wright, per fortuna di cemento) sulle colline losangeline tra i roghi e i fumi; ma il suo “Fuoco cammina con me”, uscito nel 1992 come film prequel della serie “Twin Peaks”, non prevedeva incendi letterali (e fu abbastanza un flop, poi rivalutato). E  per tornare a un’altra ‘O Hara, il fuoco più famoso forse del cinema americano è quello di “Via col vento”, il film del ‘39 tratto dal romanzo di Margaret Mitchell che aveva venduto un milione di copie in sei mesi. Lì l’incendio di Atlanta durante la Guerra civile è un momento epico che simboleggia la distruzione e il cambiamento radicale, del  Sud ma pure dei personaggi. L’incendio distruttore crea il nuovo mondo mentre Scarlett O’Hara e Rhett Butler tentano di fuggire dalla città in fiamme, portando con sé Melanie, appena diventata madre, e il suo bambino. 

 

Le scene  furono realizzate con spettacolari effetti speciali per l’epoca. Il regista Victor Fleming e il produttore David O. Selznick fecero demolire set reali per creare un’impressione autentica della devastazione. Furono bruciati in particolare gli studios della RKO Pictures, inclusi quelli di “King Kong”. Inoltre il film, uno dei primi a utilizzare il Technicolor,  sfrutta i toni  del rosso e dell’arancione per rendere il fuoco ancora più vivido e opprimente. E poi per non saper né leggere né scrivere, per aumentare il realismo, furono utilizzati barili di combustibile e cariche esplosive per simulare crolli e esplosioni. 

 

Tre anni prima, nel ‘36, insieme alle fiamme vere erano stati inventati – i disaster movie sono sempre stati un volano di innovazione – altri effetti dal leggendario scenografo hollywoodiano James Basevi (che non vinse l’Oscar perché la categoria effetti speciali sorse solo nel ‘38)   per “San Francisco”, il film sempre con Clark Gable che fa sempre il belloccione spregiudicato, e sempre che deve conquistare una signorina-bene, in un mondo classista, che viene sconvolto dalla Storia e dal Fuoco (in questo caso fuoco che deriva dal terremoto). 

 

Perché son zone pericolose, signora mia. Del resto c’è un motivo se fino all’800  la California era pochissimo abitata, e utilizzata più che altro come distesa di campi e “salad bowl of America”; ma poi arrivarono prima i cercatori d’oro e poi i cinematografari attirati dalla luce e dai costumi un po’ più rilassati rispetto alla East Coast dei padri fondatori, e fu fatta. Cecil B. De Mille, quello dei “Dieci comandamenti”, fu il primo a girare qui, mentre i primi film non esistendo ancora le sale cinematografiche venivano proiettati in fienili, con grandissimo rischio di incendio perché, si sa, la pellicola è altamente infiammabile (vedi “Nuovo cinema paradiso”). 

 

Ma l’arrivo dei cinematografari cambia anche l’architettura. La commistione tra cinema e realtà è totale anche dal punto di vista costruttivo e questo spiega il grande mistero per cui anche i ricchissimi oggi si facciano fare case di compensato. Molti produttori di Hollywood infatti affidavano i loro palazzi non ad archistar bensì agli scenografi, e i set prendevano ispirazione dal reale e viceversa. Gli edifici erano destinati a durare solo per lo spazio delle emozioni che avrebbero provocato.  

Le gesta dei primi produttori con attori, registi, e sempre gli scrittori bullizzati da questi potenti sono narrate in quel  magnifico romanzo che è “Ultimi fuochi” di Francis Scott Fitzgerald, recentemente ripubblicato in Italia da Minimum Fax col titolo “L’amore dell’ultimo milionario”, più vicino all’originale “The last tycoon”. E poi naturalmente Gatsby, col suo amore impossibile e bruciante per Daisy, e il palazzo di Gatsby che illuminato pare ardere nelle memorabili feste; e i fuochi d’artificio; e poi invece fuori la Valle delle Ceneri, il territorio riarso e grigio all’esterno del palazzo, distruzione e desolazione che ricorda la Los Angeles che vediamo in questi giorni e un po’ forse anche l’America desolata che si affaccia a Trump. 

Fitzgerald più di chiunque altro del resto rappresenta i vari aspetti del “fuoco” con le sue mille metafore abusate; l’ardore giovanile; il bruciare troppo in fretta come una candela, simbolo dell’America anni Venti, che sfocerà nel ‘29 e nella Grande Depressione; ma anche la vita stessa di Fitzgerald venne cotta a fuoco lento e poi saltata flambé in nome del “Dio d’America” per citare un Furio Colombo d’epoca.  Diventato celebre a soli 24 anni con “This Side of Paradise” (1920) poi finì come si sa in preda alle dipendenze e al male di vivere e appunto ai produttori hollywoodiani. Lo stesso Fitzgerald poi ebbe un incontro molto poco metaforico col fuoco: l’amata Zelda, figura che oggi sarebbe star di Instagram e invitata fissa a “Belve” coi suoi Tso e ricoveri,  morì tragicamente in un incendio alla clinica Highland di Asheville, North Carolina. L’incendio, scoppiato la notte tra il 10 e l’11 marzo 1948, intrappolò lei e altre otto donne nell’edificio. 

Bruciavamo alla marinara: il fuoco è anche una grande metafa in versione oceanica in “Moby Dick”, col fuoco che arde senza sosta sulla nave Pequod e ricorda una fornace infernale, con gli uomini che vi lavorano come dannati e  il capitano Achab, col suo desiderio di sfidare le leggi naturali e divine, incarna una figura demoniaca. Il fuoco che lo consuma è lo stesso che lo spinge verso la distruzione, trascinando l’intero equipaggio con sé. 


Ma se il fuoco è così importante, ci devono essere per forza anche i rimedi: così, protagonisti delle città americane sono da sempre i vigili del fuoco, che pure non hanno questo bel nome inventato da noi da quel geniale copywriter che era d’Annunzio, che nel ‘35 sostituì il più prosaico e francofono “pompieri”. Se oggi a Los Angeles i ricconi ne assumono di privati, e ci sono addirittura gli sciacalli travestiti da pompieri per depredare le case abbandonate, in generale i pompieri sono un altro simbolo dell’America con le loro loro autobotti rosse scintillanti e lo scampanare per strada: i bambini vengono portati in gita nelle caserme, le fire house, e c’è pure la festa nazionale del pompiere, il 4 maggio, e poi le immagini gloriose dei firefighters eroi dell’11 Settembre... A differenza del poliziotto, il vigile del fuoco non è divisivo, è sempre buono,  risolve gli incendi ma alla bisogna salva anche il gattino.  

E poi naturalmente ci sono le scale antincendio, i fire escape  che sono un segno urbanistico ossessivo nella filmografia americana. Cominciano a comparire a New York a metà dell’800 dopo gli incendi micidiali del 1853 e del ‘58. Fatta di ghisa, con la caratteristica forma a z, la scaletta diventa presto un luogo di socializzazione, una  tribunetta da cui vedere e commentare il mondo. In “West Side Story” diventa la versione 2.0 del balcone di Romeo e Giulietta che qui sono Tony e Maria. In tanti film  la scala antincendio è fondamentale: c’è naturalmente “La finestra sul cortile”  (1954) di Alfred Hitchcock, dove la scala antincendio suggerisce pericolo imminente ma anche permette a Lisa Fremont (Grace Kelly) di saltare da un appartamento all’altro. In “Colazione da Tiffany” (1961) Holly Golightly (Audrey Hepburn) e Paul Varjak (George Peppard) sono sempre lì a chiacchierare; in “Pretty Woman” (1990) nella scena finale Edward (Richard Gere) zompa su una scala antincendio per riconquistare la sua  Vivian (Julia Roberts). Anche in “Friends” (1994–2004) le scale antincendio dell’edificio di Monica e Rachel vengono usate in vari episodi, spesso come punto d’accesso per evitare situazioni imbarazzanti o per conversazioni intime. Anche l’orribile Vessel, mammozzone che rappresenta una delle ultime creazioni architettoniche   a New York oggi, sembra un plastico realizzato da un fissato di Escher che salti da una scala antincendio a un’altra. 


Ma il fuoco non è necessariamente un nemico. Per migliaia di anni, i nativi americani nell’Ovest  l’hanno usato in maniera controllata. Recentemente l’Università di California ha studiato questi riti e stimato che prima della corsa all’Oro dell’800 bruciassero 4 milioni di ettari ogni anno. C’è anche un corso “Keepers of the Flame” che ha coinvolto studenti, docenti, agenzie statali e organizzazioni non governative, tutti impegnati nell’apprendere e applicare queste pratiche tradizionali. Le bruciature culturali aiutano a ridurre il materiale combustibile, rigenerare le piante e mantenere ecosistemi sani, offrendo una prospettiva alternativa alla soppressione totale degli incendi (ma forse oggi non sarebbe un corso molto appetibile. E poi non c’è rimasto niente da bruciare).  
 
Sarebbe bello sapere cosa penserebbe degli incendi odierni di Los Angeles invece René Girard, il filosofo francese “culto” per i suoi studi sul sacro e sul capro espiatorio, che insegnava a Stanford, con allievi entusiasti come Peter Thiel, oggi tecno-apocalittico di nuovo in prima linea, che fece conoscere il  filosofo a un giovane allievo, il prossimo vicepresidente J.D. Vance (e poi presentò Vance a Trump). Perché il fuoco ha anche un aspetto rituale non indifferente nella cultura americana come in tante altre. Ma qui si fonde con altre tendenze tecno più moderne dando vita a mischioni interessanti. Chissà per esempio quanti losangelini che hanno perduto la casa tra le fiamme saranno soliti recarsi al “Burning man”, il raduno che ogni anno alla fine dell’estate attrae migliaia di persone nel vicino deserto del Nevada per una settimana di stravaganze tra sesso droga rock and roll e polvere (intesa proprio in senso letterale, si torna infatti tutti pieni di sabbia). Un carnevale hippy e postmoderno che termina il 1 settembre, Labor Day, in cui lasciarsi sfrenare, girare nudi o con abiti il più strani possibile, un evento che culmina con il rogo di un grande pupazzo. Insomma variazione del nostro bruciare la vecchia, rito sacrificale che però da noi si faceva al paese,  senza ketamina, mentre qui vede un parterre che un tempo era di fricchettoni e oggi è frequentato soprattutto dai magnati tecnologici che arrivano con l’aereo privato. E’ amatissimo per esempio da Elon Musk, uno che diciamo ha trasformato la sua vita in un Burning man quotidiano. Ma sull’originale ha dichiarato, dieci anni fa, “se non ci sei stato non puoi capire”. Ci va anche Mark Zuckerberg, il boss di Facebook che si sta riposizionando come maschio alfa o alfetta della Silicon Valley (un tempo al Burning Man serviva panini in versione buonista-aziendale, oggi chissà se questo sarà in linea con la sua nuova identità coatta). 

Fanno un grande falò beneaugurante anche i soci dell’esclusivissimo “Bohemian Club” di San Francisco, una specie di Bilderberg per niente fricchettone, che organizza anche lì un raduno estivo dove si possono trovare sempre Zuckerberg ma anche i Bush, dove sono stati soci Nixon, Reagan, Henry Kissinger, e reali di mezzo mondo, e che appunto nei boschi a Nord della California a luglio accoglie tutti questi potenti. Che possono parlare tra di loro a piacimento senza avere giornalisti tra le scatole. Riservato ai maschi, sono vietati i telefoni e le fotografie. Questo campeggio per vecchi ricconi è stato immortalato anche nella ottava puntata della quinta stagione di “House of Cards”, dove il povero presidente Frank Underwood interpretato da Kevin Spacey si trascina, costretto a parlare con dei tycoon tecnologici per riassicurarsi la rielezione alla Casa Bianca.

Il Grove, dove secondo la leggenda sarebbe stato ideato il progetto Manhattan che portò alla bomba atomica, con Oppenheimer che per la prima volta fa il “pitch” del suo progettino tra le capanne, prevede picnic, e poi il Grove Play, un saggio di teatro  degli iscritti che ogni anno mettono in scena, rigorosamente incappucciati; ma soprattutto la “Cremation of Care”, una cremazione delle preoccupazioni che si fa al cospetto d’una statua di un enorme gufo alta dodici metri. I “cares”, cioè le preoccupazioni, arrivano in barca con gondola nera sul lago artificiale, con fumi altrettanto artificiali, poi finalmente parte un enorme falò, dove vengono bruciate nel momento culminante della cerimonia. Per molti anni la voce del gufo è stata prestata da  Walter Cronkite, il più celebre giornalista del suo tempo, ospite sebbene mai accettato come socio (la lista d’attesa del club è infatti di trent’anni, e il celebre anchorman morì prima). Scarsissime notizie trapelano peraltro dal Grove. Una delle poche è che nel 2002 un intruso, tale Richard McCaslin, venne arrestato perché si era infiltrato al Grove nottetempo, e aveva cercato di appiccare un incendio al campo dei potenti. Perché comunque va bene tutto, il gufo e le preoccupazioni, e il rito: ma c’è fuoco e fuoco, c’è un momento per essere incendiari e uno per essere pompieri, vabbè.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).