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Il reduce Falstaff alla Scala, ma brilla solo la bacchetta di Gatti

Alberto Mattioli

Riesumato il celebre spettacolo "padano" che Giorgio Strehler creò per il Sant'Ambroeus del 1980. Il futuro incerto del direttore musicale e la sua visione particolare e intrigante del capolavoro terminale di Verdi

Daniele Gatti era tornato alla Scala prima di Natale con una direzione meravigliosamente giusta della versione sbagliata della Petite Messe Solennelle, quella orchestrata da Rossini soltanto per evitare che lo facesse qualcun altro (molto meglio l’originale per due pianoforti, armonium e “douze chanteurs de trois sexes”). Poi è riapparso dopo le Feste per il Falstaff con la riesumazione del celebre spettacolo “padano” che Giorgio Strehler confezionò per il Sant’Ambroeus del 1980.

Del capolavoro terminale di Verdi, Gatti ha sempre avuto una visione particolare e intrigante: musicalmente, la legge come una partitura che apre il nuovo secolo più che concludere in gloria l’Ottocento; dal punto di vista drammaturgico, come una commedia con un sostrato malinconico, addirittura amaro: tutto declina, non solo il protagonista. Giovedì alla Scala ha quindi riproposto questa lettura, ben assecondato dall’orchestra ma non da tutto il resto. Molti dettagli sono meravigliosi, e il secondo quadro del terzo atto, che è il Midsummer Night’s Dream di Verdi, fra i più elfici e fatati, davvero, che io abbia mai ascoltato.

L’orchestra è parsa però a tratti troppo densa, qualche stacco di tempo troppo indugiante, e insomma l’impressione è che tutti non si divertano abbastanza per divertirci. Resta poi il mistero sul futuro di Gatti. Il grande inciucio Sala-Sangiuliano prevedeva Fortunato Ortombina come sovrintendente e direttore artistico e, appunto, Gatti come direttore musicale. “Lucky” entrerà in carica il primo marzo, la nomina del direttore spetta a lui, che finora non si è sbilanciato. Vedremo che succederà, i passaggi burocratici sono lunghi e complicati, c’è un CdA da rinnovare, speriamo con giudizio, e insomma come al solito le vicende scaligere sono ammantate di mistero, in un’epoca dove perfino dei conclavi si sa tutto e subito. 


Tornando al Falstaff, se chi si sente di più di tutta la compagnia è, credo per la prima volta dal 1893, il Dottor Cajus (Antonino Siragusa, bravissimo), a Windsor abbiamo un problema. Il problemone è poi il protagonista, Ambrogio Maestri, già sir John in loco dal 2001, che è stato il grande Falstaff della sua generazione. Ma, appunto, è stato. Sulla parte scenica, mistero. Dopo il Sacro Spettacolo Strehleriano, alla Scala si sono visti altri due Falstaff, entrambi bellissimi, di Carsen e di Michieletto. Non si capisce bene quindi perché sia stato ripreso il SSS, che oltretutto, pare, si è dovuto ricostruire ex novo. Ovvio che reduci e prefiche fossero aux anges rivedendo le bellissime scene di Enzo Frigerio, i suoi meravigliosi costumi, le luci e controluci che fanno tanto Piccolo sì bello e perduto (anche se non si capisce bene perché per tutto il primo atto non si debba mai vedere in faccia Alice Ford, sempre in ombra: scelta drammaturgica o vezzo?). Cosa resti della regia vera e propria di Strehler non saprei dirlo perché nell’81 non c’ero ancora.

Vista da chi non l’aveva mai vista, fa l’effetto di molti allestimenti storici: beh, tutto qui? L’idea di metterlo nella Bassa, fra Sant’Agata e Busseto, versando un po’ di lambrusco nell’acqua dell’Ongina, è saporosa. Per il resto, sembra proprio il solito Falstaff, “caccole” comprese, come Bardolfo e Pistola che cercano sir John nascosto cavalcando una scopa, ah ah ah, sai che ridere. E poi 66 minuti di cambi scena su tre ore di spettacolo sono troppi: fuori dalla cerchia dei Navigli, gli intervalli si tende a ridurli o a eliminarli. Siamo sempre lì: dal teatrone, in questi anni, mai un debutto, un’idea, una visione, nemmeno una provocazione. A meno che la grande novità non sia rifare uno spettacolo di mezzo secolo fa. Non è un teatro, è una necropoli.

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