(Ansa)

Autostrade in mostra. Al Maxxi per immaginare il futuro superando le ombre del presente e il culto del passato

Marco Ferrante

La storia di un'azienda che realizza un prodotto non in commercio, ovvero le strade, che inizia con il racconto di quello che è stata innanzitutto un'infrastruttura economica fondamentale negli anni dello sviluppo economico del paese che per partì dal trasporto su gomma

Il lungo plastico del tracciato dell’Autosole sta al centro di una saletta sospesa tra due rampe. Il movimento interno dei percorsi del Maxxi è particolarmente adatto alla storia di un’azienda che realizza un prodotto non in commercio: strade. E’ una lunga vicenda che parla di noi e che merita affetto. Per società Autostrade vale un principio molto trascurato dal mainstream punitivo dei tempi attuali. Bisogna stare attenti a non confondere il valore documentato e oggettivo delle imprese con gli errori dei loro azionisti. Insieme ad altre imprese, in una fase relativamente recente della nostra storia industriale, Autostrade ha rappresentato – a causa dei suoi azionisti di allora, i Benetton – il momento di passaggio da un capitalismo di investimenti, sviluppo e modernità a un capitalismo della rendita. Quella fase dovrebbe essere finita (e sarà compito anche dei fondi azionisti incoraggiare questo momento di rottura con il passato). 


La mostra comincia con il racconto di quello che è stata innanzitutto una infrastruttura economica fondamentale negli anni dello sviluppo economico del paese che per complessità orografica partì necessariamente dal trasporto su gomma. In secondo luogo, un insieme di grandi opere che ha fisicamente innervato un territorio complesso, la lunga dorsale appenninica, le valli, le strette lingue costiere. Basta guardare le fotografie aeree di Iwan Baan per cogliere la bellezza infrastrutturale di questa serie di opere, già completamente integrate nel paesaggio. Fatto non scontato. Per esempio, se il nastro autostradale disteso sulla tratta Benevento-Candela è esso stesso elemento di uno scenario bellissimo, solitario e sconsolato, non si può dire lo stesso della sterminata distesa di pale eoliche che quello scenario invece ha alterato – per alcuni osservatori ha inutilmente alterato.


Questo merito di integrazione paesaggistica – e quindi culturale – è evidente nell’allestimento museale. La linea dei viadotti, l’alternanza con le gallerie, la complessiva eleganza del nastro, è autodimostrativa. Idem il racconto della progettualità delle aree di servizio, le idee di Pier Luigi Nervi, Gianugo Polesello, oppure un magnifico progetto di Vittorio De Feo per una stazione di servizio Esso (Esso fu uno dei più importanti generatori di identità negli anni del boom). Spunta nella descrizione complessiva l’implicita originaria funzione dell’infrastruttura rispetto alla bellezza dei luoghi attraversati. In fondo un’autostrada è in sé un gigantesco depliant del paese e della sua ricchezza architettonica, storica e paesaggistica: per esempio, i nomi degli autogrill e dei viadotti e i grandi cartelli che pubblicizzano Bomarzo, le passeggiate di Collalto, o i Farnese tra i Borghi della Tuscia.


Tutto ciò riguarda soprattutto l’aspetto memoriale dell’azienda: il sapore sviluppista della modernità di allora, cominciato con la visionaria intuizione di Piero Puricelli e poi proseguita nel dopoguerra con l’autostrada del Sole prima e con la dorsale adriatica poi. E’ uno stato d’animo condiviso con altre grandi storie, soprattutto pubbliche, la nascita dell’Eni e il gigantesco apparato della memoria Iri: le banche d’interesse nazionale, le società manifatturiere di Finmeccanica, la Sip-Telecom, Alitalia, Fincantieri, Autostrade.


Nel caso di questa mostra, però, il culto del passato non è un fattore consolatorio, tipico tic della nostra pur formidabile eredità d’impresa. C’è anche una parte del racconto che è la proiezione dell’identità sedimentata sul futuro. Con tre punti specifici che meritano una riflessione. Innanzitutto la questione manutentiva. La tragedia di Genova è stato un evento terribile che ha posto un problema: la ricchezza va curata. Il secondo punto riguarda la progettualità architettonica del futuro. Autostrade è un committente che produce immaginario e deve continuare a esserlo. Il terzo punto riguarda una coppia di transizioni, quella della mobilità e quella del paesaggio. Come saranno le autostrade al tempo della guida autonoma e tendenzialmente elettrica? Avremo asfalti che trasmettono energia, una gestione del tempo per lavorare in automobile, stazioni di servizio energeticamente autosufficienti? Autostrade è fatta di asset infrastrutturali, di competenze ingegneristiche e sempre più di tecnologia (la gestione delle gallerie, il monitoraggio del traffico, il controllo della velocità). Quanto alla transizione rispetto al paesaggio, basta fare un piccolo calcolo per difetto: su 3.000 chilometri di competenza di Aspi, ai margini delle doppie carreggiate – al netto di viadotti e gallerie – c’è una striscia di almeno 4.500 ettari di guarnizioni verdi, siepi, alberi, spazi da rivalutare, l’equivalente del parco nazionale dell’Asinara. Un laboratorio di modernità da immaginare. 

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