Eugenio Scalfari negli studi della Rai negli anni Ottanta (foto Ansa) 

Il Foglio Weekend

Cosa resta del regno di Barbapapà. I (quasi) cinquant'anni di Repubblica

Michele Masneri

Scalfari, Caracciolo e la gloriosa avventura di Repubblica. Nel 1976 fa nasceva il quotidiano-partito della sinistra che dal nulla divenne il primo giornale italiano. Cosa rimane oggi dell’eredità di Barbapapà

L’anniversario vero del cinquantesimo sarebbe l’anno prossimo, ma siccome proprio loro hanno cominciato prima, che si aprano le danze. Il giornale fondato da Eugenio Scalfari il 14 gennaio 1976 e oggi diretto da Mario Orfeo, insomma Rep, come viene chiamata dagli affezionati, ha chiesto ai lettori di inviare le loro storie “anche con foto e video”, raccontando questo mezzo secolo insieme. C’è di tutto. “Avevo 3 anni e imparai a leggere tra le braccia di mio padre. Non lo abbiamo mai tradito, ferme e fedeli come mai con gli uomini”. Oppure: “Mio padre era un convinto e fiero partigiano. Capì subito che ‘Repubblica’ sarebbe diventato un punto di riferimento nell’informazione”. Ancora: “un pensiero particolarmente grato va alle dieci domande a Berlusconi e al loro ideatore, Giuseppe D’Avanzo”. Ci sono perfino assunzioni in banca con Repubblica (“leggevo gli articoli di economia e finanza. Li consideravo più istruttivi di una lezione universitaria”).

E’ una specie di spoon river degli ultimi acquirenti di giornali, l’ultima generazione che abbia mai visto un’edicola. Repubblica però nonostante la crisi (generalizzata) dei “legacy media” come li chiamerebbe Musk è sempre il giornale-partito della sinistra, è “una certa idea di Repubblica”, inteso sempre come Paese e come Nazione, secondo una massima gobettiana poi fatta propria da uno degli ultimi direttori carismatici, Ezio Mauro. A noi da sempre sarebbe piaciuto vedere la saga dei fondatori, una Mad Men dell’editoria (ma sarebbe piaciuto soprattutto vivere quando nei giornali si guadagnava e la professione non si avviava ad essere un hobby tipo lo yoga o la ceramica). Vabbè. Per non dimenticare, che  fiction sarebbe il “Young Scalfari”; col giovane Eugenio nato per le traversie paterne a Civitavecchia; fresco di laurea in legge a Roma che va a fare il direttore del casinò di Chianciano, grazie all’esperienza del papà, avvocato e direttore di quello di Sanremo. Con l’amicizia con il coetaneo Carlo Caracciolo, figlio del diplomatico Filippo, che dopo Harvard e una pausa dall’avvocatura a Manhattan torna a casa come Christian De Sica in “Vacanze di Natale” e scopre una rivista di agricoltura che si chiama “Humus” e da lì fonda un gruppo di giornali tecnici poi noti col nome di Etas-Kompass. Il padre diplomatico la trova una pessima idea, si accordano: il diplomatico passa al figlio cinquantamila lire al mese, se entro i due anni non riesce a farcela il figlio tornerà a New York a fare l’avvocato allo studio Sullivan & Cromwell, come raccontava Franco Recanatesi in “La mattina andavamo a Piazza Indipendenza”,  omaggio al più noto e celebre “La sera andavamo a via Veneto” di Scalfari.  

 

Su Scalfari, poi, si è creata in vita e postuma una pubblicistica e un’encomiastica molto defatiganti, i vari “Dialogo con io”, “intervista con Dio”, o viceversa, più quelle col Papa, talvolta smentite (dal Papa). Il  Meridiano Mondadori (onore concesso a pochissimi  in vita) e i testi filosofici. Invece, come sarebbe più interessante (anche per produzioni tv) raccontare il sexy barbuto giornalista-manager, col duplice matrimonio e i duplici natali e compleanni (stile questa volta Vittorio De Sica). Prime nozze infatti con Simonetta De Benedetti figlia del direttore della Stampa, e poi con l’amante di sempre Serena Rossetti figlia di una celebre libreria di via Veneto. Il tutto in un aristocratico “tout se tient” che non scandalizzava anzi elettrizzava i salotti romani e milanesi e gli intellettuali altrimenti poi un po’ prude  sulle pagine di Rep. 

 

Scalfari e Caracciolo si incontrano, nemmeno trentenni, a Milano nel ‘52. Caracciolo è uno dei pochi di cui l’Avvocato Agnelli suo cognato fosse invidioso, perché bello, aristocratico, e pure col senso degli affari. Col maggiordomo Kemal nel suo fortino di Trastevere, con la “pennica corta”, con la leggendaria fortuna in affari e in amore. Con la  heimat sul colle più alto di Capalbio e poi subito sotto i vassalli e i valvassori, e i premi letterari e i giornalisti al bagno. E pure sarebbe una “Succession” in piena regola, con cadaveri misteriosi, Dna esaminati, figli riconosciuti e figli adottati, e la dinastia che ancora presidia il prestigioso cucuzzolo. 


Ma l’inizio non fu scontato. “Sembra un corrierino dei piccoli” disse ferocemente Lietta Tornabuoni il 14 gennaio 1976 alla vista della neonata Repubblica. Le pagine erano solo 20, il prezzo fissato per legge a 150 lire. Affissioni martellanti dello studio Pericoli & Pirella: "O credi ai Tg o credi a Repubblica". Doveva essere un giornale libertino, capace di cambiare opinione, un giornale “ibrido” nella definizione di Edmondo Berselli, metà aristocratico e metà popolare; insomma come un palazzo napoletano con i principi sopra e le botteghe sotto (il Principe, simpatico, diceva: “a Napoli Caracciolo e monnezza non mancano mai”). Il palazzo di Repubblica, quello vero, si sposterà negli anni da piazza Indipendenza  alla periferia mal collegata della Cristoforo Colombo, largo Fochetti (Fichetti, per i detrattori) che porta all’Eur e non portò bene. Ma un’altra caratteristica di Rep è quella di essere un giornale apolide. E’ un giornale che sta a Roma ma non un giornale di Roma (Roma ha infatti il Messaggero, mentre il Corriere è Milano). Il business plan, diremmo oggi, era di arrivare al pareggio di bilancio in tre anni, in caso contrario si sarebbe chiuso bottega. Il pareggio era previsto a centoventimila copie, ma i primi due anni le vendite si fermano a meno di cento. Il terzo anno però scoppia il caso Moro e le vendite si impennano. Il povero leader democristiano viene fotografato dalle Br (sempre sul pezzo) col giornale di Scalfari in mano, tragica certificazione di rilevanza anche perché Rep lancia e difende la “linea della fermezza”. Dopo qualche anno scoppia il caso P2 che travolge il Corriere. L’obiettivo, assurdo, impossibile, di superare il giornale dei Rizzoli si sta per avverare. 


Nel frattempo, il mondo di Rep si ingrandisce e diventa all inclusive; si cominciava il lunedì con Affari & Finanza del fido Peppino Turani, grande alter ego di Barbapapà già nel movimento studentesco milanese; un allegato che per la prima volta faceva capire l’economia agli italiani, è il “Capital” versione quotidiana, senza troppi bilanci o titoli di Borsa ma con tante storie di imprenditori anche aspirazionali (esce nel 1986, per il decennale, che sarà l’anno del sorpasso sul Corriere). Con il Venerdì partiva invece l’intrattenimento (ma intelligente!) con gli oroscopi (ma intellettuali!) e la posta del cuore (ma con Natalia Aspesi!). La domenica, a messa con Scalfari con l’omelia del fondatore (dettata al telefono a redattori emozionati) e poi la confessione-intervistona di Gnoli. 

Per il paese assetato di un mondo a forma di Rep c’erano i libri, la “Biblioteca del Novecento”, da “Cent’anni di solitudine” a “La strada di Swann”, da “Il vecchio e il mare” a “Memorie di Adriano”, vengono messi in vendita, per la prima volta in Italia, a 4,90 euro più il prezzo del quotidiano e i numeri furono da record. Colori pastello, grafiche severe; era l’Adelphi pour le peuple. Duecento milioni di copie vendute in 20 anni, senza dover andare in libreria. E sono magari gli unici libri che si trovano nelle case più modeste, sono l’equivalente di sinistra del libro natalizio di Bruno Vespa a destra.  E poi la “Repubblica delle Idee”, la Atreju di Repubblica, e tutti gli inserti, “ViviMilano” e l’equivalente romano,  per godersi le città (ma sempre in modo equo e responsabile). E poi  le Guide.  Ma c’erano anche i quotidiani locali della Finegil, vera gallina dalle uova d’oro del gruppo di cui il Principe era giustamente orgoglioso; i locali servivano poi anche come colonie in cui reclutare le migliori promesse da passare al nazionale (come Concita De Gregorio, dal “Tirreno”).


L’idea di Rep era nata in realtà negli anni Cinquanta, quando Scalfari lavorava alla Banca Nazionale del Lavoro e conosce Arrigo Benedetti che dirigeva l’Europeo. Benedetti e Scalfari pensano di fare un quotidiano rivoluzionario che abolisca la polverosa terza pagina; che in prima abbia un avvenimento anche sportivo o di costume, non necessariamente politico; niente cronaca nè sport (all’inizio). L’economia alla fine. L’idea viene proposta a Olivetti e a Enrico Mattei capo dell’Eni, ma i due non si mettono d’accordo. Mattei ci sta, Olivetti  no; però accetta di finanziare un settimanale, ed ecco che nasce L’Espresso (Mattei farà invece il Giorno). Sono abbastanza vecchio da ricordarmelo, il Giorno; mio padre mi mandava a comprare Giorno e Repubblica all’edicola del paesino dove abitavamo; oggi il Giorno non esiste più (da mò) e l’edicola nemmeno, vabbè. 

Ma quello di Rep era un mondo, un regno con la famiglia reale (con la duplice monarchia degli Scalfari e i Caracciolo, e sul fondo gli Agnelli e i De Benedetti), con i principi che si sposavano tra di loro, con duchi e marchesi che erano gli inviati e le firme di punta. Gli ambasciatori:  Corrado Augias oggi splendido novantenne   a New York. Paolo Filo della Torre, che Arbasino chiamava “il contino di Santa Susanna”, a Londra (strappato al Sole24Ore). Bernardo Valli a Parigi. E poi  i fuoriusciti che non sarebbero mai più tornati, come ricorda sempre Claudio Sabelli Fioretti, o come Pansa, spretato per eccellenza, lettera scarlatta degli ex Rep. “Confesso di aver provato qualche istante di commozione mista al rimpianto quando ho visto la sua barba candida e ben curata. In quel momento mi sono rammentato che a Repubblica lo chiamavamo Barbapapà come il personaggio dei fumetti; in quel soprannome c’era molto rispetto e anche ammirazione” scrive Pansa in “La Repubblica di Barbapapà”.  

E il fondatore è morto Il 14 luglio 2022, giorno della presa della Bastiglia;  anniversario che si festeggiava sempre, più che il compleanno, nel pratone a Velletri, la casa di campagna di Barbapapà vicino Roma, un luogo leggendario per Rep; essere o non essere invitati a quella ricorrenza era significativo. Ci si recava in pellegrinaggio (ci andò per esempio Tommaso Cerno, fugace condirettore di Rep., portando in dono scritti di Italo Calvino, compagno di banco di  Scalfari a Sanremo negli anni Quaranta. Chissà cosa direbbe oggi Barbapapà del Cerno fantasista al Tempo). La casa  era stata comprata dal padre di Scalfari, calabrese di Vibo, avvocato, direttore del casinò della città dei fiori  con la vincita a una lotteria, il che riporta la saga scalfariana a quella dimensione da gambler e molto americana ahimé soffocata dalla encomiastica aziendale. 


Di nuovo, sarebbe bello vedere il “back office” di Repubblica per quello che era, soprattutto un club di gentiluomini ganzissimi. Questa figaggine si trasmetteva anche al lettore, un lettore che magari non era neanche per forza di sinistra, ma lo leggeva per essere à la page (già, esisteva un tempo in cui leggere un giornale era uno status symbol). A sinistra, era pure un distinguo: per chi si stufava con manifesto e   col defunto Paese sera o con l’Unità; del resto c’era un progetto preciso. Era l’idea di fondere  il club esclusivo e snob del “Mondo” di Pannunzio, cioè diciamo la haute couture del giornalismo italiano, con il prêt à porter dell’Europeo (che vendeva un botto). Il piano, di allargare il più possibile il pubblico a sinistra. Giancarlo Pajetta, segretario del Pci,  sosterrà in seguito che “Repubblica è il secondo giornale dei comunisti, che però lo leggono per primo”.  Mentre Pannunzio era uno talmente snob  che rifiutava la pubblicità per il suo giornale, tranne quella dell’Alitalia presieduta dal conte Carandini, maestro di antifascismo e eleganza; girava ai tempi una filastrocca: “se non ci conoscete/guardateci i calzini/noi siamo i liberali/del conte Carandini”. 

Scalfari e Caracciolo procedono alla sintesi: battaglie civili ma in belle case, doppiopetti su misura, sinistra riformista con uso di mondo.  Con la vendita a De Benedetti (che all’inizio non aveva creduto nel progetto) diventano miliardari. Sarebbe una bella epopea; sullo sfondo del berlusconismo che verrà dopo e che costituirà il Grande nemico. Così, i tempi più gloriosi per Rep sono quelli delle “Dieci domande” (come le Dieci Giornate), che verranno ripetute ad libitum con un post it giallo sul giornale; e poi la “Lettera di Veronica” (quella che Veronica Lario scrisse, denunciando il berlusconismo di letto, e che mise le basi per la caduta definitiva, non a caso a Rep). Scalfari però lo raccontò, che Berlusconi alla fine gli stava simpatico; del resto c’erano tratti in comune.  Caracciolo coinvolgeva in leggendari poker il giornalista-fondatore Gigi Melega e Giovanni Malagò, e aveva i pastori sardi invece dei fattori siculi per la sicurezza, in villa. Poi, l’amore per un po’ di malavita, col Ciarra mediatore in quel fatidico momento in cui Berlusconi avrebbe potuto conquistare Rep. (sliding door!) e il faccendiere Carboni. 

L’estetica però era diversissima. Se da una parte c’era Mediaset e l’oro placcato dei Telegatti e di Dallas, dall’altra c'erano le quinte neoclassiche di Rep, coi suoi caratteri Bodoni, utilizzati normalmente nei libri, e loro per  primi lo applicarono a un giornale; anche, portando le tradizionali 9 colonne invece a sei, un’idea del grafico    Franco Bevilacqua e di Sergio Ruffolo, designer e scultore e fratello dell’ economista Giorgio, dinastia molto Rep. che navigava con gli Scalfari  a Port’Ercole  sul gozzo di Roberto Olivetti. O sul “Fior di Mare”, già dell’ambasciatore Filippo Caracciolo, poi di Carlo ma prima appartenuto a Italo Balbo quando  faceva il trasvolatore con Orbetello come base degli idrovolanti…

 

Perché Rep era un piccolo impero, un regno sicuro  come quello descritto da  Stefan Zweig, cantore della nostalgia asburgica, “Ogni cosa, nella nostra monarchia quasi millenaria, sembrava essere stata fondata per durare nel tempo. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli spettava, cos’era permesso e cos’era proibito”. Questo regno aveva dei riti,  come la celebre riunione del mattino, coi redattori appollaiati sulle cassettiere dell’ufficio centrale, ha raccontato Attilio Bolzoni su “Domani”; “incastrati uno all’altro come sugli spalti di un’arena che poi era il lunghissimo tavolo”. “Era la messa cantata del direttore. Lui entrava fra le 10.30 e le 11 con un post it giallo in mano, da una parte un elenco di nomi e dall’altra un  ‘viva’ o un ‘abbasso’, i buoni articoli e gli articoli mediocri pubblicati sul giornale.  A volte, capitava che Scalfari allungasse la nostra agonia con una telefonata. Al presidente della Repubblica Pertini, a Berlinguer o a De Mita. Azionava il  vivavoce e parlava con loro, sentivamo domande, risposte, battute, qualche sfogo. A  bocca aperta poi ascoltavamo quegli altri intorno al tavolo, i ‘mostri sacri’, le grandi firme che dibattevano del mondo fino a quando toccava a lui. E nella stanza scendeva il silenzio”. 

Per funzionare il Regno ha sempre avuto bisogno di un grande nemico, dei barbari alle porte. Come raccontò Pansa, il fondamento di Repubblica, secondo una delle grandi intuizioni di Scalfari, era che serviva un cattivo da combattere. Prima fu Craxi. Poi Berlusconi. Da anni si cercano altri “villain” che diano identità. Ma non è mica facile. La direzione Molinari ha vacillato su Israele, il popolo di sinistra è confuso (da mò). La vittoria di Meloni ha riacceso vecchie speranze. Però, notano i maliziosi, con la nuova direzione di Orfeo il nome Meloni è completamente scomparso dalle pagine del giornale, al massimo si cita “il governo”. Poi i tempi sono cambiati. Ormai i giornali sono un peso: contiamo di più se la teniamo, Rep, o se la vendiamo, si domandano gli Elkann. Meglio l’influenza che infastidisce o liberarsi per sempre del regno di carta?  Riferiscono i bene informati che vorrebbero tantissimo vendere, ma il problema è: a chi? Oggi gli unici interessati a comprarsi un giornale sono clinicari e impresentabili, non certo gentiluomini amanti della carta stampata, ma del potere di pressione che questa permette… più pochi appassionati generalmente non liquidi. Si vorrebbe evitare di bissare l’esperienza Espresso, venduto al re delle università online Iervolino e da questo rivenduto a un tipo delle pompe di benzina. I fondatori si rivoltano nella tomba, il principe  viene a tirare i piedi la notte a Garavicchio! 

Che tempi però. Rep è stata anche la più grande start up giornalistica del Dopoguerra. Non esistono altri giornali fondati dopo il 1940 che siano ancora in vita e così rilevanti. Con talenti  che sono storia del giornalismo. Non tutti inventati, tanti reclutati altrove. Nuove leve e firme già celebri. Gigi Melega era addetto al “rotor”, sistema a rotazione inventato all’uopo per selezionare a turno nuovi praticanti. Venticinquenni a cui veniva chiesto “Scrivete 50 righe sull’argomento che più vi sta a cuore”; promossi o bocciati, in pochi minuti, tipo speed date. Nel rotor passa anche Irene Bignardi, poi signora Melega. 

Dentro o fuori il rotor, talentuose carriere, tutti  conti dell’Impero: Mario Pirani; Andrea Barbato; Gianni Rocca; Miriam Mafai tra le poche donne; Giorgio Bocca; e i collaboratori di una cultura finalmente non polverosa: Beniamino Placido; Umberto Eco; Arbasino e le sue doppie pagine folgoranti e incomprensibili; e poi anche negli anni successivi Rep vidima e certifica i leader intellettuali a sinistra. Crea il Saviano oratore civile, crea Michela Murgia, che poi però per le ultime interviste sceglierà il Corriere e Vanity Fair, ma la stella di Rep è già in affanno da un po’, e poi forse siamo entrati nell’epoca del “solo journalism”, non è più il contenitore che conta ma la firma del singolo. Un’altra celebre civitavecchiese, Selvaggia Lucarelli, su Substack, la piattaforma di newsletter, propone i suoi articoli a 7 euro al mese (e la seguono in 91 mila paganti, quasi i 100 mila primigeni di Repubblica).  Resiste Natalia Aspesi, ma dopo di lei finisce anche il tempo delle grandi firme di scrittura; si va per tentativi. In scia al successo di Scurati con M, si tenta il sorpasso a destra con Stefano Massini che cala la carta Hitler. Ma il nazismo non attizza allo stesso modo, e poi ci sono già i saluti a braccia tese di Musk. Allora si torna alle origini, si porta a teatro Scalfari, inteso come spettacolo, “L’Italia secondo Eugenio”. Mah. Vedremo. Intanto, tanti auguri, cara vecchia Rep. 

 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).