facce dispari
Il latinista Ivano Dionigi: “Non facciamo più della lingua una questione ideologica”
Il ritorno del latino alle medie voluto dal ministro Valditara "è una bella notizia purché non sia una bandierina identitaria". Il motivo? "Insegna a riconoscere il volto delle parole e a comunicare meglio, che è un diritto di tutti"
Più latino a scuola per tutti. Per parlare meglio italiano e per chi vive incatenato al presente, smanioso di spostarsi nello spazio ma “provinciale del tempo”, secondo una riflessione di T.S. Eliot che ha fatto sua il professor Ivano Dionigi, emerito di Lingua e letteratura latina all’Università di Bologna di cui è stato rettore dal 2009 al 2015, presidente della Pontificia Accademia di Latinità dalla sua costituzione al 2023, direttore del Centro studi “La permanenza del classico”.
Autore di numerosi libri, due sono quelli della sua vita, la Bibbia e il “De rerum natura” di Lucrezio, e due i suoi crucci maggiori: che lo studio del latino continui a scontare la prevenzione degli utilitaristi trinariciuti e contrastanti pregiudizi ideologici.
Sarà contento dell’annuncio del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara sul ritorno facoltativo del latino nelle scuole medie come materia opzionale dal secondo anno.
È una bella notizia purché non sia una bandierina identitaria. Il latino come la matematica o l’informatica non è di destra né di sinistra.
Cosa non la convince?
Ci sono due modi per fare le cose: bene o meglio, un terzo non c’è. Se l’obiettivo è migliorare le competenze linguistiche dell’italiano, di cui il latino è mater certissima, perché reinserirne lo studio solo in via facoltativa dal secondo anno delle medie? Perché non per tutti? O è utile o no.
Perché è utile?
Perché insegna a riconoscere il volto delle parole e a comunicare meglio, che è un diritto di tutti. In più il latino è importante perché riapre il tempio del tempo, chiuso dall’attuale prevalenza dello spazio. I ragazzi non sanno distinguere il prima dal poi, fluttuano nel presente. Oggi, diceva Eliot, crediamo che il mondo sia “proprietà esclusiva dei vivi”, senza trapassati né posteri. Il latino è invece la lingua dell’accadimento, della consecutio temporum. La civiltà romana si è basata sulla temporalitas, sul rapporto con gli eventi. Nella religione, nel diritto, nell’arte.
La velocità tecnologica motiva una formazione immediata e specialistica.
Luddisti mai: godiamoci i trionfi della tecnica ma senza trascurare la filantropia, la cura dell’uomo. Come genitore, insegnante e cittadino non sono interessato solo al progresso, ma al destino delle persone. Soprattutto ora, blanditi da chi vuol spiegarci tutto, è necessario che Socrate riequilibri lo slancio di Prometeo. Che l’ars interrogandi di chi sa di non sapere riacquisti importanza. Viviamo in un’orgia specialistica dimenticando che anche chi consegue un PhD in chimica o robotica è Philosophiae Doctor, “esperto di filosofia”. Le parole non mentono.
Se al di là dei saperi c’è una sola cultura, dove deve guardare?
Rispondo con Petrarca, primo grande intellettuale europeo vissuto al confine tra classicità e modernità. Disse parlando di sé “simul ante retroque prospiciens”, “con lo sguardo rivolto contemporaneamente avanti e indietro”. Lo riecheggiò Steve Jobs, ingegnere rinascimentale, affermando che per unire i puntini bisogna guardare anche indietro. Il latino non è contrapposto all’informatica o all’inglese: si deve passare da un “aut aut” a “et et”. La cultura classica offre una “paideia” integrale e circolare.
E lo studio dei classici?
I classici pongono domande e stimolano risposte, riconciliano col tempo e indirizzano alla libertà coltivando una visione d’insieme che difetta al mero “specialista”. Il filosofo Michel Serres, quando commentò la ricostruzione della diga di Assuan, osservò che nel comitato di ingegneri, tecnici, ecologisti mancavano un egittologo e un filosofo. A chi gli chiese a cosa sarebbe servito un filosofo rispose: “Avrebbe notato l’assenza di un egittologo”. Mi torna in mente un altro episodio, quando Ciampi rincontrò il compagno di studi paleografici Scevola Mariotti, autore con Castiglioni di un celebre vocabolario latino e anche mio maestro. “Scevolino”, gli disse, “ricordi quando facevamo le congetture sui frammenti? La divinatio, la ricomposizione… sapessi quanto mi sono servite per riordinare i conti dello stato…”.
Per dieci anni lei ha presieduto la Pontificia Accademia di Latinità: come è messo l’insegnamento nella Chiesa?
Molto male. Sarà un problema quando i sacerdoti non sapranno leggere un testo in originale.
E la messa in latino?
Bene celebrarla dentro un seminario, non in una parrocchia di campagna. Nel Concilio Vaticano II l’allora cardinale Montini pronunciò la frase di sant’Agostino: “Melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi”, “è meglio che ci rimproverino i grammatici piuttosto che non ci capisca il popolo”.
Lei studiò in seminario, poi fu da indipendente consigliere comunale per il Pds. Gramsci e Togliatti erano stati paladini del latino, però a sinistra un pregiudizio era diffuso.
L’uso che ne aveva fatto il fascismo suscitava un riflesso condizionato. La sinistra si divise nello scontro parlamentare degli anni Sessanta sull’insegnamento del latino. Nenni titolò “La lingua dei signori” un fondo sull’Avanti! ma i comunisti colti la pensavano diversamente, da Concetto Marchesi a Togliatti, e Paolo Bufalini è stato un grande traduttore di Orazio. Napolitano mi portò un suo discorso in comitato centrale annotato da Bufalini in latino. Se penso a certi interventi di adesso di qualsiasi colore in parlamento o in tv… Dice Aristotele che l’uomo è caratterizzato dal lógos, ma talvolta mi pare siamo retrocessi alla phoné degli animali. Si strilla in assenza dell’agostiniano clamor cogitationis, il “grido del pensiero”.
Un auspicio politico?
Che una questione culturale come lo studio del latino non sia più questione ideologica.