Non esiste prosa più classicamente russa di quella di Ivan Bunin

Marco Archetti

Medhelan ha ripubblicato “La vita di Arsen’ev”, con la grande traduzione di Ettore Lo Gatto. Perché leggerlo? Perché si tratta di altissima letteratura

Dici letteratura russa e a nessuno viene in mente Ivan Bunin. Del resto anche la storia della letteratura esige fotogenia, in un certo senso. E Bunin era, in tutti i sensi, poco fotogenico. Innanzitutto era antisovietico ab imo pectore. Il pontefice Maksim Gor’kij, che pure lo stimava, lo riteneva bravetto nella pars destruens, che chiamava realismo critico, meno in quella construens – fondamentalmente reazionario, babushka mia. E poi era poeta, più che narratore, e men che mai narratore di intrecci. Ivan Bunin non portava incisi sul volto i propri tormenti, seppur ne avesse – in rete si possono trovare alcuni suoi ritratti di nitida, ottocentesca compostezza. E nemmeno il Nobel gli ha regalato quel po’ d’immortalità, anzi, la sensazione è che la sua opera se ne stia sepolta con lui.

 

Ma. C’è un ma. Si chiama Medhelan editore, che di Bunin ha ripubblicato "La vita di Arsen’ev" (330 pp.,  26 euro) nella traduzione storica di Ettore Lo Gatto, pioniere della slavistica ma germanista di formazione, che incontrò la lingua russa dopo essere stato ferito, durante la Prima guerra mondiale, e trasferito in un campo di prigionia a Sigmundsherberg: tre libri e una lettera in un cassetto, e l’irrefrenabile voglia di decifrarli.

 

Ivan Bunin detestava Dostoevskij con furore, diciamo così, nabokoviano, e in fondo non avrebbe potuto essere altrimenti, dato che i suoi predecessori letterari, i suoi riferimenti, i suoi padri erano Anton Cechov, di cui fu anche amico (molto bello "A proposito di Cechov", Adelphi, morbido ritratto fitto di aneddoti), Turgenev, Tolstoj e soprattutto Goncarov, da cui apprese la capacità epica di descrivere la vita stagnante.

   

Pubblicò anche un racconto dal titolo “Il sogno del nipote di Oblomov. La componente lirica caratterizza in profondità la scrittura di Bunin, che esordì come poeta e poeta si sentirà sempre. A inizio carriera, adottato dagli antimodernisti – ma non simpatizzava nemmeno per quelli –, tradusse molto dall’inglese, ed è a lui che si devono, a fine Ottocento, le versioni complete in russo dei drammi di Byron. Il capitolo che lo riguarda, nella famosissima Storia della Letteratura russa del principe D.P. Mirskij, comincia così: “Ivan Alekseevic čBunin è abbastanza difficile da definire”.

 

E dunque perché mai leggere, oggi, questo autore semidimenticato e, nella fattispecie, un romanzo che ha il passo di un poema in versi e invece è l’autobiografia di un uomo immaginario di cui si racconta la formazione, a partire dall’infanzia in campagna, con tanto di padre beone e scialacquatore? Storia dell’ombelico di un altro, a volerle trovare un sottotitolo più caldo (ma un padre beone e scialacquatore l’ha avuto anche Bunin). Storia pubblicata nel 1930, scritta tutta all’estero. Perché immergersi in questo mondo perduto?

 

Risposta: perché si tratta di altissima letteratura. Perché non esiste prosa più classicamente russa di quella di Bunin. “Io nacqui mezzo secolo fa, nella Russia centrale, in campagna, nella tenuta paterna”. Perché è una seduta spiritica, più che un romanzo. E tiene insieme mille voci come una sinfonia maestosa e purissima. “Il giorno in cui lasciai Kamenka, per la prima volta, sentii la poesia delle grandi strade dimenticate, l’antichità della Russia che si perdeva nella leggenda”. E lo fa coi tempi della stessa natura che racconta (“di nuovo, ancora una volta, fu primavera”), inesorabile come gli spazi sterminati in cui si svolge. “Ricordo ancora i geli dell’Epifania…”.

   

Ne "La vita di Arsen’ev" ci sono la terra degli avi, una storia familiare, e una parata minore di ricordi maggiori, dall’odore del lucido da scarpe agli anni del ginnasio. Stufe. Finestre gelate. Freddi “poveri e plumbei” e oche che volano. E l’ombra di Tolstoj, quasi vicino di casa. Ma anche Puškin, “per me, a quel tempo, una parte reale della mia vita”. E poi gli struggimenti d’amore e lo studio dell’inglese, insomma, una vita intera, fino al momento in cui fu chiaro a tutti che “il passato stava per finire”. Finché, del passato, resta quel che resta, “un disordinato accumularsi di impressioni e immagini”. Un succedersi di giorni e notti, di piaceri e dispiaceri – scrive Bunin – “che talvolta si chiamano avvenimenti”.

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