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Cari politici, non si tratta così l'università

Giorgio Caravale

Un sistema in affanno, e un  taglio di 500 milioni annui per tre anni mentre affronta la sfida insidiosa degli atenei telematici

Un taglio di 500 milioni annui per tre anni. La scelta di definanziare il sistema universitario fatta dal governo Meloni, accompagnata dalla moltiplicazione delle forme di precariato, rischia di aggravare la crisi dell’università italiana proprio nel momento in cui si trova a fronteggiare la sfida più insidiosa: una sfida interna al sistema stesso, quella legata allo straordinario aumento degli iscritti registrato negli ultimi tre anni dalle università telematiche. Sull’onda della pandemia che ha costretto migliaia di docenti e studenti a trasferire online le proprie attività didattiche, le università a distanza, frutto di una infelice decisione politica risalente ai primi anni Duemila, allora ministro Letizia Moratti (“uno dei provvedimenti più gravi e scandalosi nella storia dell’università italiana”, secondo Andrea Graziosi, autore nel 2010 di "L’università per tutti", Il Mulino), hanno costantemente aumentato il numero dei loro iscritti attraverso una ricetta molto semplice, facilitare con ogni mezzo il conseguimento del titolo di laurea. Si tratta di una sfida insidiosa soprattutto perché nel corso dell’ultimo decennio il flusso dei finanziamenti statali ha privilegiato la quantità (più iscritti, più laureati, più fondi a disposizione) rispetto alla qualità (della ricerca e dell’insegnamento) e proprio su quel terreno ora le telematiche rischiano di vincere la loro partita. Mentre le università tradizionali registrano un calo delle iscrizioni, le università telematiche registrano il fenomeno opposto. Il taglio dei finanziamenti statali approvato dal governo rischia così di porci nei prossimi mesi di fronte a un paradosso: quello di vedere le università tradizionali ferme al palo, impossibilitate a bandire nuovi posti per i giovani ricercatori e alimentare i propri laboratori di ricerca, mentre le telematiche, premiate con maggiori finanziamenti in ragione del trend crescente dei loro iscritti, sono le uniche in condizioni di rafforzarsi assumendo nuovi docenti

   

Su queste colonne, poche settimane, fa Andrea Graziosi ha trattato anche questo tema nell’ambito di una lunga riflessione sullo stato di salute dell’università italiana. Graziosi sottolinea la necessità di “limitare l’ampliamento degli atenei telematici che offrono soluzioni apparentemente meno impegnative e di maggior successo sul breve periodo”, e ribadisce “la maggiore qualità dell’insegnamento in presenza rispetto alla didattica a distanza”, sia perché “il primo garantisce anche l’apprendimento tra pari”, sia perché “interi campi di studio, in primis quelli sperimentali, possono essere coltivati solo partecipando in prima persona”. Anche in qualità di membro di una commissione composta da autorevoli voci del mondo universitario, recentemente incaricata dalla ministra Bernini di rivedere la legge 240 (la cosiddetta legge Gelmini), Graziosi suggerisce tra le possibili soluzioni quella di “permettere la trasformazione in atenei in presenza delle telematiche che volessero seguire questa strada e superassero certi standard”, ma anche quella di “individuare, motivatamente, le classi di laurea riservate alle università ‘tradizionali’” e “vagliare le lauree magistrali che possono farsi a distanza”. Si tratta di strade percorribili che andranno valutate e sperimentate, magari attraverso l’uso di simulazioni ad hoc, come lo stesso Graziosi suggerisce.

   

Più in generale, mi pare che la sfida degli atenei telematici ponga il sistema universitario italiano di fronte a un bivio, oggi più di ieri. Quello di scegliere se inseguire tali atenei sul loro stesso terreno, puntando sui corsi a distanza e sull’accrescimento esponenziale degli iscritti, oppure se ribadire con forza il modello di un’università capace di raggiungere alti livelli di qualità di ricerca, in grado di trasmettere conoscenza a un numero ampio (ma non illimitato) di studenti tramite un insegnamento di qualità. Graziosi propone di “sostenere i settori più forti, quelli che tengono in piedi il sistema”, di “aiutare i forti per poter continuare ad aiutare i deboli”, assicurare cioè “la tenuta dei nostri migliori atenei e lo sviluppo della nostra migliore scienza e dei nostri più forti settori umanistici sociali e giuridici, spingendoli ad aprire fronti nuovi e potenzialmente fruttuosi”. La proposta di distinguere in modo piuttosto netto tra le università di alto livello su cui investire in termini di qualità sempre maggiore della ricerca, e gli atenei “più deboli”, di cui facilitare e incoraggiare l’“aggregazione”, presumibilmente più focalizzati sull’insegnamento, dovrebbe a mio parere diventare oggetto di un dibattito pubblico: si tratta di questioni “di interesse nazionale”, come giustamente scrive Graziosi, rilevanti per il futuro delle generazioni future e per il ruolo della cultura italiana.

   

Qualsiasi riflessione non potrà comunque prescindere dall’esigenza di misurare e valutare la qualità dell’insegnamento e della ricerca di ciascun dipartimento e dunque di ciascun ateneo. Esattamente la funzione per la quale, quasi venti anni fa, tra il 2006 e il 2007, è nata l’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, di cui peraltro Graziosi è stato prima vicepresidente e poi presidente tra il 2015 e il 2018. L’università italiana attraversava allora la sua più drammatica crisi di credibilità: nella narrazione mediatica era diventata l’ultimo ridotto dei fannulloni, una riserva di scioperati pagati per fare poco o niente. La retorica anti-intellettualistica dei principali partiti italiani faceva da cornice a tale narrazione. L’introduzione dell’Anvur rispose (anche) alla necessità di dare all’opinione pubblica un segnale di cambiamento, mostrando che i docenti universitari erano pronti a sottoporre le loro attività a un sistema di valutazione, e spingendo la ricerca italiana nella direzione di una sempre maggiore internazionalizzazione. Gli effetti di questo intervento sono sotto gli occhi di tutti. Le nuove generazioni di studiosi e studiose pubblicano su riviste internazionali, costruiscono reti di collaborazione e progetti di ricerca con i loro colleghi europei, l’università italiana è più aperta all’esterno e all’estero di quanto non fosse quindici anni fa.

   

Detto questo, credo però sia arrivato il momento di fare un primo bilancio sul ruolo ricoperto dall’Anvur e sulle ripercussioni che il sistema di valutazione oggi vigente ha avuto e continua ad avere sulla quotidiana attività dei docenti universitari. Non credo di andare lontano dal vero osservando che i docenti passano (passiamo) una larga parte del loro (nostro) tempo a stendere rapporti di valutazione e di autovalutazione (che pochi o nessuno legge), a riempire moduli cartacei o online, ottemperare a sempre più pressanti adempimenti amministrativi, inseguire piccole ma ingombranti modifiche normative e regolamentari che periodicamente alterano i requisiti dei corsi di laurea o di dottorato inducendo moltiplicare commissioni e sotto-commissioni, e via dicendo. Credo sia necessario riflettere sull’inquietante processo di burocratizzazione del lavoro universitario degli ultimi quindici anni. Aggiornare e ripensare il sistema valutativo è possibile, forse necessario. 

   

Il rischio, a mio parere, è quello di creare una pericolosa spaccatura tra coloro che, per così dire, mandano avanti la macchina, dedicando gran parte del loro tempo a gestire questa selva burocratica e quelli che gradualmente si disamorano dell’istituzione, associata nel loro immaginario a una fonte inesauribile di carta e riunioni, più o meno produttive e necessarie. L’ansia prestazionale da valutazione permanente che caratterizza i docenti universitari ha peraltro come indesiderato, involontario, corollario quello di alimentare l’idea che tutto ciò che si compie nell’ambito del lavoro accademico debba essere, utile, immediatamente utile, di un’utilità spendibile sul piano lavorativo o quantomeno sul piano della potenziale remunerazione finanziaria attesa dal ministero. Un meccanismo (mentale, oltre che burocratico) che risulta particolarmente penalizzante per le cosiddette humanities. 
Se, come sottolinea giustamente Graziosi, la missione principale dell’università dovrebbe essere quella di impegnare le proprie energie intellettuali per far avanzare il livello delle conoscenze, ciascuno nel proprio settore di studi, trasmettendo poi queste ai propri studenti, è necessario riflettere sul fatto che il tempo dedicato a mandare avanti questa gigantesca macchina burocratica è tempo sottratto alla ricerca e all’insegnamento.

   

Siamo sicuri che insistere nel tentativo di trovare un minimo comune denominatore tra scienze dure e scienze umanistiche sul terreno della valutazione sia la strada migliore da percorrere? La tentazione di applicare alle materie umanistiche i criteri bibliometrici con i quali vengono giudicate le scienze dure è sempre dietro l’angolo, se ne è fatta interprete due anni e mezzo fa la ministra Maria Cristina Messa, proponendo di sostituire le commissioni per le abilitazioni nazionali con un “sistema di certificazione quantitativa”, ovvero un “controllo automatizzato” basato su “parole chiave e intelligenza artificiale” (una proposta poi arenatasi perché cadde il governo del quale faceva parte). La scelta, compiuta nel 2012, di individuare una lista di riviste scientifiche di livello superiore (la cosiddetta fascia A), nelle cui pagine pubblicare un articolo risulta tutt’oggi essere un titolo di merito aggiuntivo, appare ancora valida in una situazione nella quale, in molti settori disciplinari, quasi tutte le riviste risultano ormai inserite in fascia A in ragione di una logica corporativa difficile da arginare? L’ambizione di valutare il grado di incidenza sociale degli atenei attraverso una misurazione della cosiddetta terza missione non rischia di favorire paradossalmente un’ulteriore chiusura del sistema rispetto alla società civile cui propone di indirizzarsi, dal momento che si prepara a valutare solo le attività promosse istituzionalmente dalle università stesse, tralasciando dunque quelle che i singoli docenti svolgono, in maniera indipendente ma pur sempre in qualità di docenti di un ateneo, nel mondo dei media e della cultura più largamente intesa? Sono solo alcuni dei temi intorno ai quali vale la pena avviare una riflessione pubblica, nel momento in cui ci si appresta a rivedere e aggiornare la legge 240.

   

Le università devono a mio parere tornare a essere luoghi di produzione e fruizione di cultura. Il progressivo calo demografico, e dunque il graduale restringimento del bacino di utenza delle nostre università, può essere pianto come una disgrazia oppure salutato come un’insperata occasione per migliorare il rapporto numerico tra docenti e studenti dal quale dipende in modo così determinante la qualità dell’insegnamento. A patto di investire sul sistema universitario e non invece definanziarlo in modo violento come fatto oggi e promesso per i prossimi tre anni. 

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