Irredimibili maschi. Francesco Piccolo smaschera l'epica virile nella letteratura
"Son qui: m’ammazzi" è un libro sui personaggi maschili nella letteratura italiana, sulla loro maschilità, virilità, follia, fragilità violenta, possessività e anche idiozia. Dice: questo è ciò che siamo (stati). Non si tratta di salvarci, si tratta di essere consapevoli. Viaggio letterario, da Boccaccio a Starnone
Son qui: m’ammazzi. Un colpo al cuore per Lucia Mondella, la sua potente inermità, e un colpo al cuore per Alessandro Manzoni: possibile che avesse capito tutto di che cosa sognavano e sogneranno sempre gli uomini per le donne? In letteratura, sì certo, in letteratura.
Partire dal titolo di questo libro di Francesco Piccolo (Son qui: m’ammazzi, Einaudi, 148 pp.) è importante, perché è un libro sui personaggi maschili nella letteratura italiana (nei capolavori della letteratura italiana, romanzi che ancora ci fanno emozionare, che ci hanno formato, iniziato, che hanno rotto il mare ghiacciato dentro di noi): è un libro sulla maschilità, virilità, follia, fragilità violenta, possessività e anche idiozia di questi personaggi (Astolfo e Iocondo nell’Orlando furioso non sono intelligentissimi), eppure la frase chiave, la frase fondamentale, decisiva, la pronuncia una giovane contadina, Lucia, nei Promessi Sposi. Son qui: m’ammazzi. Lucia è davanti all’Innominato, è sfinita, impaurita, rassegnata. Voleva solo sposare Renzo ed è dovuta scappare da don Rodrigo, don Abbondio non l’ha difesa, Renzo ovviamente nemmeno, la monaca di Monza l’ha tradita, il Nibbio l’ha rapita e adesso è lì, sul pavimento in un angolo della stanza della serva. Ha solo da offrire, come scrive Piccolo, “una resa totale”.
L’Innominato per la seconda volta le chiede di alzarsi. Ora devo citare anche io queste righe perché sono splendide. “Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un’immagine, alzò gli occhi in viso all’Innominato, e riabbassandoli subito, disse: ‘Son qui: m’ammazzi’”.
Lucia riconosce la forza, la potenza maschile dei millenni sulle sue spalle, non osa fermare i suoi occhi negli occhi dell’Innominato, che non la conosce, non l’ha mai vista, non sa niente di lei se non che c’è un altro uomo, nemmeno lui un genio, don Rodrigo, che la vuole. Lucia sa che l’Innominato ha il potere assoluto su di lei, e gli mostra solo di accettarlo. E’ qui che succede il miracolo, ma perché? A parte la questione della Provvidenza e della fede, succede perché l’Innominato è stato rassicurato da Lucia che la sua forza, la sua superiorità, non è in discussione. L’Innominato si converte, non senza tormento – “Io domandar perdono? A una donna? A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!”. Da duecento anni ci chiediamo che cosa sarebbe successo se Lucia avesse fatto una scenata, e negli anni della scuola l’abbiamo ritenuta insopportabilmente arrendevole. Perfino Manzoni, scrive Piccolo, si è interrogato su di lei: “Dimmi un po’, non ti pare che come contadina abbia idealizzato un po’ troppo la Lucia?”.
Non ci convinceva nemmeno l’idea della forza spirituale, ma adesso, dopo Simone Weil, dopo tutto il Novecento, è così evidente che Lucia è più forte: poiché rifiuta la forza. Ed è evidente che ha di fronte uomini fragilissimi e quindi rabbiosi. L’unico modo per ammansirli è ingannarli, facendogli credere il contrario. Questo è solo un mio pensiero che ha a che fare con la vita, Francesco Piccolo non lo scrive, e Manzoni chissà se lo ha mai pensato mentre creava Lucia e gli sembrava di averla troppo idealizzata. Ma in questo stupendo viaggio nella letteratura italiana a partire dal Decameron di Giovanni Boccaccio per finire con Via Gemito di Domenico Starnone, ci sono gli uomini guardati, creati, impastati, sbugiardati ma sempre, sempre, sempre, epicizzati dagli altri uomini: gli scrittori.
La forza, l’ira, la gelosia, la sofferenza che però non gli fa mai dimenticare che è ora di fare sesso, le recriminazioni, il sospetto, il lamento, la vendetta, la paura che una donna (“a una donna? A che cosa son ridotto!”) gli stia rubando lo scettro dell’inganno, del potere e della libertà. Del resto questo deve fare la letteratura, rendere epico tutto ciò su cui posa lo sguardo, e quindi Zeno Cosini sposa la sorella brutta per ripiego e anche perché, a un certo punto al buio, le ha toccato un fianco e scambiandola per un’altra ha pensato che quel fianco non era niente male. Piccolo intitola il capitolo su Zeno di Italo Svevo: “Un uomo ridicolo”, è proprio così, ed è forse il motivo principale per cui siamo pazzi della Coscienza di Zeno e di quest’uomo bugiardo (non violento però, non Orlando di Ariosto, non Federì di Starnone) che ha fondato e continua a fondare, seppur con un grande cambiamento rispetto al passato, il mito dei maschi. Che dicono: non possiamo nemmeno essere amici di una donna brutta. E tutti ridiamo, convinti, estatici di fronte a tanta arguzia: maschi e femmine. O forse ridiamo di fronte alla verità del maschio, che è così vicina da poterla toccare.
Interroga ogni parte di noi, ci scuote e a volte ci fa perfino tenerezza: don Fabrizio del Gattopardo di fronte alla giovinezza di Angelica capisce che il suo tempo è finito ma è raggiante di avere con lei quell’ultimo ballo (e per tutta la sera trova noiose e invecchiate le sue ex amanti, di gran lunga più giovani di lui).
Questi tredici grandi scrittori non hanno attenuato la verità dei maschi, non hanno pensato di dover insegnare ai loro personaggi a essere uomini migliori, e questo fa parte dell’essere un grande scrittore. Mostrare la realtà, anticiparla, epicizzarla. Trovare le parole e le storie per dire: siamo dei trogloditi, questo è il nostro mondo, e forse non saremo mai meglio di così. Piccolo è sicuro, insieme a Carla Lonzi che cita nell’introduzione a questo viaggio umano e letterario, che il mito dell’uomo nuovo sia un’assurdità, che non possa esistere davvero, che dovranno passare altre ere geologiche. “Noi neghiamo come un’assurdità il mito dell’uomo nuovo”. Carla Lonzi aveva deciso anche di non partecipare più ai momenti celebrativi della creatività maschile, per una serie di motivi che hanno a che fare con il mito della forza ma anche con la posizione delle donne rispetto a quella forza. Non voleva fare da contorno estatico alla celebrazione di quella forza. Che si è fondata, anche, sulla letteratura, che si è nutrita di letteratura. I libri e i loro personaggi si sono infilati fra le nostre dita, sotto la nostra pelle, nei nostri cuori: la gelosia di Orlando l’abbiamo studiata a scuola, l’abbiamo assorbita, così come lo sguardo sulle donne di Boccaccio, e anzi possiamo dire che Zeno era già la rivoluzione del maschio, ci stupiva per modernità, per simpatia, per disastrosità. Francesco Piccolo ha messo in fila, ragionando, i momenti epici di questi capolavori, ma anche i dettagli, “le zampacce” di questi maschi, le ossessioni, le giustificazioni, l’arroganza, e ha detto: non si tratta di salvarci, si tratta di essere consapevoli.
I maschi fanno le guerre e usano la forza e impazziscono di gelosia, e non vogliono essere amici delle donne brutte. “Il racconto semplicemente corrisponde a quello che siamo (stati)”, scrive Piccolo.
Ma adesso io, lettrice in cerca di Iliadi nei rapporti umani, devo per forza parlare del mio nemico, che Francesco Piccolo ha messo in questo libro di libri, rendendolo ai miei occhi ancora più bello. Il nemico di tutta la mia vita è Antonio Dorigo, il protagonista di Un amore di Dino Buzzati (1963: era ieri, era mille secoli fa?). Nei decenni ho fantasticato di incontrare Dorigo e di spaccargli la testa. Ho fantasticato di dirgli ma chi ti credi di essere, sparisci, non ti meriti Laide, ballerina della Scala e prostituta, e vuoi solo toglierle la bellezza, la giovinezza e la vitalità. Vuoi toglierle queste cose che ti hanno fatto innamorare perché temi che non le avrai soltanto tu, che non saprai averne cura, vuoi toglierle perché vuoi solo esserle superiore. Stai aspettando che diventi vecchia e debole, o speri che si inginocchi e a occhi bassi ti dica “son qui: m’ammazzi”. Dorigo l’ho odiato e quel romanzo l’ho distrutto a furia di rileggerlo: ogni volta ho ammirato Dino Buzzati per la precisione con cui ha messo nudo il cervello di un maschio degli anni Sessanta (o di sempre) e i suoi pensieri elementari, furibondi e increduli di fronte all’innamoramento per una donna. Di fronte alla scoperta di un mondo che non è di sua proprietà.
Non diventate subito pazzi, non sto dicendo: siete tutti solo così, ma è importante dire: siamo anche così. O lo siamo stati. Dorigo, che come ha scritto Piccolo tenta di ribaltare il suo senso di inferiorità in un esercizio di superiorità (andando con le puttane), si innamora di Laide e la sua superiorità va in mille pezzi. Laide è misteriosa, probabilmente bugiarda, Laide non può certo essere pazza d’amore per Dorigo, Laide è insofferente, libera, capricciosa, lo chiama zio davanti agli altri, ha un cugino giovane e bello che forse non è proprio un cugino. Laide fa quello che vuole, prende i soldi di Dorigo, gli mette in braccio il cagnolino e gli ordina di aspettarla mentre si allontana in moto con questo cugino, e Dorigo devastato l’aspetta, sognando a occhi aperti di abbandonare il cane e di sparire per sempre. Desidera solo non amare più Laide, ma la sua vita passa nel cercare di vederla, non riuscire a vederla, immaginarla fare balli osceni davanti ad altri, non credere a nulla di quello che lei gli dice. Il suo è un amore, appunto, ma è un amore totalmente privo di felicità, perché il rapporto di forza che si è sbilanciato è molto più importante, perché l’Orlando furioso è sempre in agguato, e lo sono anche le vendette di Boccaccio, e la questione privata di Milton, che vuole rivedere Giorgio, rischiando di essere catturato dai fascisti, solo per scoprire se è stato con Fulvia. Tutti questi uomini, compreso Don Rorigo, l’Innominato, ’Ntoni, stanno dentro il cervello di Dorigo e gli dicono: devi fare la guerra, non c’è un’altra strada. Sennò non sei un uomo. “Lo prese lo sgomento perché in questo preciso istante ha capito di essere completamente infelice e senza nessuna possibilità di rimedio, una cosa assurda e idiota, tuttavia così vera e intensa che non trovava più requie”. Il romanzo finisce che il mio nemico sposa Laide, e anzi lei è in attesa di un figlio. Certo la violenza non finisce qui, e io mi chiedo se in quel matrimonio ci sia la resa di Laide o la resa di Dorigo. Mi chiedo se la guerra sia rinunciabile. L’uomo nuovo, a cui Carla Lonzi non crede (questo libro ne porta le prove) potrebbe intanto smettere di dire che però lui è diverso, non coinvolto, assolto, e io che c’entro, e quando mai, e non farmi incazzare dai. In ogni caso, comunque andrà questa guerra: grazie per i capolavori.