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Tornare a Roberto Longhi, l'occhio dell'arte

Jacopo Parodi

Il fascino unico nel raccontare i pittori, la rivoluzione nell’attribuire le opere, gli eredi e gli allievi eretici

In questi ultimi mesi abbiamo assistito a una fascinosissima ripresa, a servizio di un pubblico volutamente non ristretto, degli studi su Roberto Longhi. Nato ad Alba nel 1890 e morto a Firenze nel 1970, è stato senza alcun dubbio il più seducente storico dell’arte del Novecento italiano. Le sue pagine hanno incantato generazioni non solo di studenti di storia dell’arte, di specialisti, ma anche di giovani che, delusi dall’università, dalle lezioni noiose e ampollose, cercavano un maestro, che fosse non un polveroso accademico, ma un narratore romanzesco. Che sapesse, con tono fermo e in apparenza mai enfatico, dunque con naturalezza, trasportare un giovanissimo, e affamato di verità e di sogno, Pier Paolo Pasolini dentro le pieghe segrete di un quadro.

 

                     

 

Anche uno storico dell’arte come Francesco Arcangeli – che poi sarà uno dei principali allievi di Longhi – ricorderà a più riprese quel giorno del gennaio 1935. Cioè, quando Roberto Longhi aveva, prendendo possesso della cattedra di Storia dell’arte dell’Università di Bologna, sconvolto la sua vita, pronunciando una prolusione, dal titolo Momenti della pittura bolognese. Nulla era stato più come prima, per gran parte di quei ragazzi di allora, che si trovano, magari per caso, o per nulla di meglio da fare, a sentire questo tipo strano, dall’aria di un divo del cinema muto impastato di pose decadenti, elegantissimo e trascuratissimo al tempo stesso. Tanto finto da sembrare perfettamente reale e assolutamente sicuro dei propri atteggiamenti. Longhi aveva in sé il miracolo della finzione, che confonde il prossimo, e lo mette, paradossalmente, infine, a suo agio. 

Aveva stregato quei pivelli scettici, cui non andava bene niente, e che avrebbero intrapreso carriere e destini così diversi, ma lì religiosamente raccolti, per testimonianza anche dello stesso Pasolini, in una piccola aula “appartata e quasi introvabile” di via Zamboni 33. Che cosa disse loro quel quarantenne di cui non sapevano nulla, un “tale” di nome Longhi, piovuto dal cielo? Annullò in un colpo solo la distanza tra la vita di ciascuno e l’opera d’arte.

Gli spiegò che il quadro e la statua facevano parte della quotidianità come la bistecca a pranzo o il pacchetto di sigarette appena comprato dal tabaccaio all’angolo. Era una scoperta sensazionale: potevano, anzi, dovevano tradurre le linee e i colori di quadri, remotissimi nel tempo, in equivalenze o paragoni con il proprio, personale vissuto. Si sarebbero ritrovati a bere nelle osterie di Bologna con le ombre dei pittori, che, senza che loro lo sapessero, avevano nei secoli costruito l’immaginario in cui erano nati e cresciuti. Dall’illusione della pittura alla carne della vita, per Longhi, il passo era breve e necessario, al fine di tornare all’opera con una maggiore coscienza di sé stessi: “Condotto dalla mia conformazione mentale ad un amore per la lettura diretta dell’opera come documento parlante, non mai stanco di spremerne i significati quasi inesausti”, Longhi – parlando di sé – vuole “non soggiacere al desiderio, che non di rado ci va sobillando, di alterare con più strepito che necessità i quadri stabiliti dall’uso; semmai di arricchirli e portarli così più vicino alla coscienza comune”. Da quell’invito all’indagine inizierà un setacciare di chiese, di dipinti o affreschi abbandonati nella provincia profonda: come a dire, di radici che non si conoscevano. E, dunque, si reinventavano tra fantasia e scienza, mentre si riallacciava il legame tra la vita quotidiana e Paradisi, Annunciazioni, Madonne e Giudizi universali, rosi dall’umidità e dall’incuria. O dalle false, errate attribuzioni, di cui erano, a quel tempo, infestati i musei e i libri. 

Due libri, allora, hanno risvegliato, a cavallo tra l’anno appena passato e quello presente, l’interesse per questo tipo misterioso, venuto su da umili origini, se si vuole, oscure, e diventato uno dei centri della vita artistica e letteraria italiana. Nei Millenni Einaudi, troviamo la splendida antologia dell’opera longhiana, Da Cimabue a Morandi, che ripropone la selezione di scritti realizzata nel 1973 da Gianfranco Contini, il sommo filologo e critico letterario amico fraterno di Longhi. Ma arricchita in modo decisivo, oltre che da un ricco apparato iconografico, da una introduzione di Lina Bolzoni – studiosa internazionalmente nota del rapporto tra poesia verbale e poesia visiva – che rinnova, aprendola anche agli studi iconografici tra analogie e differenze, l’interpretazione della scrittura letteraria dello storico dell’arte, e da schede introduttive, stese dai maggiori specialisti, a ciascun saggio.

Dunque, il lettore non è più abbandonato a sé stesso, come accadeva nell’ascetica antologia di Contini: priva di immagini, era il tentativo di strappare Longhi ai colori e ai loro ideali profumi, alle loro sfumature evanescenti ma folgoranti, per ricondurlo per intero dentro la letteratura, cioè in una ricerca di verità raggiunta attraverso la bellezza discreta della parola. D’altra parte, però, per il Saggiatore è uscito, da pochissimo, un pregevole libro, che in fondo si presenta come complementare alla ripubblicazione einaudiana dei testi fondamentali di Longhi e a nuove e puntuali letture critiche di questi: Roberto Longhi. Il mito del più grande storico dell’arte del Novecento di Tommaso Tovaglieri. 

Aprendo uno dei suoi saggi più famosi, quello sul pittore lombardo del secondo Quattrocento, Carlo Braccesco, Longhi aveva scritto parole che possono essere messe a sigillo del racconto informatissimo e assolutamente originale di Tovaglieri: “I ricordi di uno storico dell’arte non sono soltanto, come molti inclinano a credere, i ricordi di tavolino e di scintille scoccate, automaticamente, tra la pila fotografica e la pila documentaria, ma anche, e molto più, di viaggi senza mèta, d’incontri fortuiti, di lunghi approcci con le opere, ostinatamente mute, nei pomeriggi che spiovono dai lucernarî dei musei: questi amatissimi paesaggi della nostra vicenda particolare”. Ma la cosiddetta “vicenda particolare” si espande, nella penna narrativa di Tovaglieri, che con respiro mimetico, ma basato su una ricostruzione precisissima dei documenti, apre le porte non dell’officina di Longhi; bensì dell’Italia tra primo e secondo Novecento, vissuta all’ombra di questo attore di razza, che sapeva, forse più di ogni altra cosa, sedurre. E produrre miracolosamente conoscenza, seducendo.

La domanda che Tovaglieri si pone all’inizio è la seguente: come sono stati i funerali di Roberto Longhi,  spentosi, senza rumore, alle 18.25 del 3 giugno 1970? Exit Longhi, il libro incomincia dove l’avventura dell’istrione finisce, sottotono. Quell’enigmatico sapiente è morto, davvero, una volta per tutte? Con grande delicatezza e finezza, l’autore indugia su quel momento preciso in cui il sipario cala, per dischiudere uno scenario diverso. Sul palcoscenico fanno finalmente irruzione gli altri, mentre la narrazione si volge, in uno scatto rallentato, dal dentro della mente del Longhi agonizzante al fuori della storia che si vuole raccontare, riavvolgendo il nastro.

Si affacciano subito Contini e la moglie dello storico dell’arte, Anna Banti, la grande scrittrice, che lo aveva conosciuto quando lei era una liceale e lui un brillantissimo e giovanissimo professore: “Nella malattia la consapevolezza arriva prima. Ci si vede morire non nell’istante stesso della morte, ma già da quando essa è atrocemente venuta a stare con noi. Le giornate prima di morire Longhi le aveva trascorse nel letto del salotto, […] Gianfranco Contini disse di aver sempre avuto l’impressione che finché Longhi era vivo, anche la storia dell’arte era viva e che la sua morte aveva segnato la morte della disciplina a cui si era dedicato. Ed è proprio Contini che quella notte ne veglia il cadavere. […] Tra dolore e nostalgia Anna Banti […] era rimasta immobile accanto alla porta, ‘bevendo tutto lo strazio di quel respiro rauco, di quella tosse ostinata’”. La solitudine del morente scompare: da qui in avanti, Tovaglieri insegue un panorama intellettuale, che si frammenta e scompone in vicende minute, dunque apparentemente imprendibili. E, parimenti, si estende a macchia d’olio in maniera impressionante, penetrando nei pensieri e nelle storie particolari di allievi, amici, nemici, sostenitori e detrattori di Longhi. 

La sua eredità, materiale, scientifica, letteraria e umana, rappresenta, nel suo complesso, un mistero che ognuno, cercando in misure diverse di impossessarsene, deforma e adatta al proprio volto. Tra eccessi interpretativi commessi dai singoli attori in gioco e guerre interne nel nome di una seduzione, più o meno reciproca, scoccata tra Longhi e il sé stesso di turno – da quest’ultimo magari rivendicata come l’unica e sola –, questo libro è anche un formidabile caleidoscopio della vanità umana, delle sue più infime  o banali debolezze. Queste, talvolta, possono essere tutt’uno con il genio, con l’arte e la letteratura. Una delle querelle raccontate più interessanti è sicuramente quella, che coinvolge due tra i massimi discepoli di Longhi, ossia Mina Gregori, la studiosa-guerriera (che prenderà il controllo della Fondazione Longhi dopo la morte di Anna Banti), e Giovanni Previtali, che accusa la Gregori di aver tradito, soprattutto su Caravaggio, l’attribuzionismo longhiano e i suoi principi etici e scientifici.

Per aumentare scoperte e ritrovamenti: attribuire un quadro anonimo, grazie al riconoscimento di un dettaglio insignificante o di una sfumatura fugace, a un grande maestro riscoperto e amato dal pubblico, come Caravaggio, o, invece, a un minore, destinato a rimanere tale, è questione non solo di scienza, ma anche di denaro e prestigio. Come amanti feriti, Gregori e Previtali conducono uno scontro all’ultimo sangue e all’estrema pugnalata critica fra mostre e articoli, che vedrà la Gregori vincitrice assoluta. Caravaggio è, in fondo, ormai suo: e con lui, l’eredità “ufficiale” di Longhi

Ma, forse, il ritratto maggiormente efficace riguarda il legame difficile, e notoriamente esploso, a un certo punto, nel rancore, tra Longhi e il geniale e dissidente Federico Zeri, per molti il massimo conoscitore d’arte e attribuzionista italiano del Novecento. Quindi, capace di sovrastare per certi versi anche l’antico mago-incantatore cui si era votato, ragazzo, dopo essersi però già laureato altrove. Un legame, che, a sorpresa, nella rigorosa lettura documentario-narrativa di Tovaglieri, si scopre non essere mai sfociato in un vero e proprio duello, tanto vagheggiato e reso leggendario dai fan di entrambi. Non c’è stato, ci ammonisce l’autore, nessun “Nietzsche contro Wagner” (per riprendere un famoso conflitto tra allievo e maestro). Il problema è, in realtà, a giudizio dello studioso, la natura profonda di quell’angelo ribelle, che Federico Zeri, uomo dalla memoria prodigiosa e acrobatica, è stato, e che Longhi aveva riconosciuto, distanziandosene sempre più, mentre l’allievo cercava di avvicinarlo a sé, lusingandolo e facendogli confidenze personali. In pochi tratti, non privi di sottili fuochi d’artificio, si può ripercorrere l’intera storia di quel “mostro” solitario e dall’istronia pop-televisiva, troppo spesso di cattivo gusto, che Longhi ha avuto davanti a sé, alla propria scuola, e da cui in fondo non si è lasciato mai – lui, il sommo seduttore – del tutto affascinare.

Scrive Tovaglieri, seguendo Zeri dall’infanzia all’età adulta, con virtuosismo penetrante: “Federico infatti non è un bambino qualsiasi, ma è un bambino che ha un dono: è toccato dal dono della memoria visiva, si ricorda tutto, anche in modo tragico, […] si scontra subito con la vita. […] la drammaticità della sua figura è assoluta, il fascino della sua dote mnemonica, applicata alle opere d’arte, incontrovertibile: […] Zeri era a ogni modo una creatura ridiscesa dalla cultura longhiana”. Ma, forse, a differenza di Longhi, Federico non aveva saputo giocare il suo mito e il suo fascino sulla quarta corda dell’ambiguità: “Il personaggio non solo aveva fagocitato lo storico dell’arte in erba, ma si era spinto perfino ai confini della legalità in dinamiche, diciamo pure, da Intrigo internazionale”.

Tuttavia, non si deve credere che per Tovaglieri la mitologia longhiana si riduca a un gustoso campionario di pettegolezzi, di affondi nella storia della cultura italiana, nel segno della chiacchiera o del ritratto letterario, o, ancor peggio, di tensioni romanzesche irrisolte e intrappolate in un lunghissimo saggio, che vorrebbe negare sé stesso, implodendo in circa seicento pagine. Indubbio è che si tratti, invece, di una meditazione profonda, certo sfumata dal colore narrativo, sulla rivoluzione culturale condotta da Roberto Longhi anche sul piano esistenziale e umano. La ricerca dell’identità si sposta, continuamente, nelle pagine longhiane, dall’attribuzione di un quadro a un possibile nome, per affinità di dettagli e chiaroscuri, alla definizione di un’interiorità, disseppellita e fatta emergere con le sue follie e le sue punte di grandezza. Si apre, quindi, con Longhi un perenne varco tra la vita e l’arte, la trasfigurazione letteraria e pittorica dell’essere al mondo e l’impossibile desiderio di riconoscersi in una definizione, in un dominio delle fonti e degli stili, che faccia scaturire, per uomini e quadri, un certificato d’autenticità definitivo. Inganno, illusione, stregoneria, o, infine, realtà: non importa più. Crediamo ormai all’attore impareggiabile, al mago sardonico, all’istrione della scrittura e burattinaio di vite. Lo stralcio di una conversazione immaginaria – forse tra due amanti, reciprocamente sedotti sulla scia del racconto – chiude il libro di Tovaglieri, lasciando il lettore nel dubbio della favola, e al tempo stesso nella certezza scientifica dell’incanto delle parole e delle immagini evocate dall’ombra inseguita: “Ma un attimo prima che la memoria sembrò bastare a se stessa un grido crepitò nell’aria nel triplice boato di un fuoco d’artificio Longhi! Longhi! Longhi!”.

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