(Unsplash)

C'è tutto Sándor Márai in "Confessioni di un borghese"

Marco Archetti

Un memoir dall’atmosfera fumosa e alcolica (ECC), che rappresenta una foto di famiglia attraverso i decenni e racconta tutta l'infanzia dell'autore, dal collegio alla prima maturità nel periodo tra le due guerre. Un viaggio verso la comprensione di cosa voglia dire essere uno scrittore e cosa significhi non saperlo mai

Gli anni, il tempo, le generazioni. Le città d’Europa e mille alberghi. Vite, persone, viaggi: ma cosa resta di una famiglia? “Alcuni nomi, qualche fotografia, una bocca, uno sguardo, alcuni gesti, qualche mobile. E a volte, nel labirinto dei nervi, una perturbazione e uno smarrimento, la sensazione di non essere mai completamente soli, la percezione di aver ricevuto in sorte una materia e una forza”. Racconta così, Sándor Márai, in "Confessioni di un borghese" (Adelphi, 513 pp., 15 euro), mappa autobiografica di un’esistenza cominciata all’inizio del secolo scorso a Košice, oggi Slovacchia, come ultimo esponente di una famiglia che “aveva già raggiunto la fase critica e pericolosa della condizione borghese”. La sua vita terminerà con un suicidio a San Diego, California, otto mesi prima del crollo del Muro di Berlino e del comunismo che l’aveva costretto all’esilio. 


Questo imponente memoir è una foto di famiglia attraverso i decenni e racconta tutta l’infanzia dello scrittore, dal teppismo al collegio, fino alla prima maturità nel periodo tra le due guerre. Cinquecento pagine in cui accompagniamo Márai nella comprensione di cosa voglia dire essere uno scrittore e cosa significhi non saperlo mai. “Di cosa avrei scritto? Fissavo il bicchier d’acqua sul tavolino e mi dicevo: magari di questo bicchiere”. Leggerlo vuol dire abbandonarsi a un corso irregolare, a tratti calmo e digressivo, a tratti furioso e precipite, di corsa in lungo e in largo per questo primo quarto di Novecento europeo, quando la gioventù dello scrittore era tutta istinto e vita: con lui frequentiamo case di malaffare e Caffé concerto, cattedrali e catacombe dell’esistenza, le piazze di Berlino con la sua “baldoria demente” weimeriana e il fumoir del Ritz a Parigi. “Dormivo con un occhio solo, mi alzavo dal letto a notte fonda, prendevo un tassì e mi precipitavo a Montparnasse –  seminario universitario, sauna e spettacolo en plein air”. Tutto per scoprire che, se esiste una verità, è che “la vita uccide la parola”.


Molte le illuminazioni – “il giornalismo è una condizione nervosa” –, moltissimi gli incontri: Lindbergh che atterra dopo la trasvolata, Unamuno seduto alla Rotonde, e Blasco Ibañez che batte a macchina “i suoi mediocri romanzi estetizzanti”. E poi le mille forme del tempo, di un continente, e di una famiglia che c’è anche se non c’è, che esiste a dispetto della sua presenza perché è un’impronta nel sangue e la si porta dentro irreversibilmente quanto più la si vuole spazzar via; una famiglia che non era una famiglia semplice, “ma forse,” scrive Márai, “non esistono famiglie semplici”. Infatti era complicata, una famiglia “in cui collera, passioni e interessi legavano persone diverse per temperamento e inclinazioni”, una folla di estranei “nella quale si mischiavano rabbia e abnegazione, poveri di spirito e personalità ipertrofiche: è a loro che devo tutto, ma mi è costato molta fatica dimenticare e annullare in me quello che mi hanno trasmesso”. Rievocarla significa incamminarsi tra i morti. “Per quanto mi riguarda” – scrive Márai – “alcuni di essi non esistono più, mentre altri continuano a vivere nelle mie movenze, nella forma del mio cranio, nel modo in cui fumo una sigaretta o faccio l’amore. Persone che non ho mai visto continuano a vivere, ad agire, a desiderare o temere qualcosa dentro di me. In certi momenti, se qualcuno mi offende o se sono costretto a decidere in fretta, probabilmente penso e dico le stesse cose che pensava settant’anni fa uno dei miei zii nel suo mulino in Moravia”.


Fenomenologia dello scrittore che cerca sé stesso mentre fugge da radici che lo inseguono, questo memoir dall’atmosfera fumosa e alcolica si legge come si viaggia, immersi nello spirito con cui si fa tardi la notte. Un viaggio che ci porta fino a Damasco, “nella luce color miele”, e poi torna all’inizio col suo carico di cose finalmente comprese e esposte al vento freddo della Storia, in una casa di Buda arredata da mobili provenienti dai depositi familiari, nella quale pensare, finalmente in pace e rigorosamente in ungherese: è qui che voglio morire. Ma poi c’è la vita, e nel futuro di Márai solo esilio, precarietà, anonimato.

Di più su questi argomenti: