![](https://img-prod.ilfoglio.it/2025/02/04/140856177-af4a0bc0-46a8-4592-8eee-55882dd1188e.jpg)
Foto Getty
In libreria
Anche Schopenhauer non ne poteva più di folte chiome e barbe accademiche
L’“Elogio cella calvizie” di Sinesio (con dotta prefazione) è un'esaltazione della testa calva contro quella piena di capelli. Da Nietzsche a Dalí, la schermaglia ha coinvolto filosofi e artisti di ogni epoca e di ogni luogo. Un dibattito pilifero
La recente riedizione dell’Elogio della calvizie del neosofista Sinesio di Cirene (edizione Luni che per l’ammaliante dottrina della curatrice Anna Rotunno si pone già come reference) ha un ulteriore elemento d’interesse nella prefazione di Sossio Giametta. Prefazione – intitolata ”Hair” – che è verosimilmente l’ultima prosa del gran traduttore filosofo di lì a poco scomparso. Ebbene che un autore che ha pubblicato migliaia di pagine (a cominciare dall’opera omnia di Nietzsche) finisca la propria carriera scritturale, faticando sopra un argomento pilifero – ovvero intorno a capelli e filosofia – è ben curioso, ma non unico né tantomeno peregrino nella storia del pensiero. In tal senso il trattatello di Sinesio rappresenta una sorta di alfa-omega del tema, poiché, per esaltare la testa calva contro quella chiomata, egli si oppone a un precedente e perduto Elogio della chioma di Dione Crisostomo pur esso neosofista (opera che quindi ci perviene grazie alla parziale trascrizione polemica di Sinesio).
Nel corso della storia poi la schermaglia tra calvi e chiomati è proseguita, definendosi in due alterne visioni dell’uomo dal barbiere: non c’è infatti poeta, scrittore o filosofo il quale anche solo di sguincio – ossia mettendoci la propria faccia – non abbia offerto un qualche contributo al tema. Si va da Quevedo che avrebbe preferito morire piuttosto che esser calvo (“Yo quiero ser muerto que calvo”) alla calvizie immaginifica di D’Annunzio; dal Luciano della Storia vera che considera i calvi più attraenti alla “calva iena” mussoliniana del Govoni ardeatino. Eppure non solo sui capelli ci si è accapigliati, ma pure sulle barbe. Anzi, se possibile, il tema della barba è ancor più fertile in filosofia. In tal senso percorrere gli ermi dei musei Capitolini con le presunte fisionomie di Eraclito, Pitagora, Socrate, Platone o rimirare ai Vaticani la raffaellesca Scuola d’Atene sembra stabilire un’equazione incontrovertibile tra barba e filosofia, se non fosse poi per la vox populi che tuona barba non facit philosophum.
Vero è che in antico la fattezza della barba caratterizzava persino le scuole ellenistiche (corta per gli Stoici, lunga per i Peripatetici, riccioluta per gli Epicurei). E infatti molti professori di universitaria filosofia, i quali con la filosofia c’entrano appena ministerialmente, si fanno crescere ancor oggi qualunque barba il viso permetta loro, quasi ciò fosse un’appendice curricolare valida al loro cursus academicus. Ma già Schopenhauer, proprio nel libello Sulla filosofia da università, ammoniva circa i professori irsuti: “Vorrebbero spacciare la barba per un ornamento. Da duecento anni, si era abituati a vedere codesto ornamento solo negli ebrei, nei cosacchi, nei cappuccini, nei detenuti e nei briganti”. Egli guardava a Buddha, perfettamente glabro e filosofo, di contro a tutti i fondatori di religioni monoteiste, barbificati e non filosofi, convinto a ragione che ex oriente lux anziché medio oriente. Ovviamente anche nella glabrità assoluta si danno eccezioni contrarie: per esempio l’alopecia di Michel Foucault lo rendeva più simile a una scimmia uakari che a un filosofo, come altresì nella barbosità assoluta (si pensi a Massimo Cacciari).
Per tacere di pizzo, mosca, favoriti, un capitolo a parte meriterebbero i baffi in filosofia: da quelli da schnauzer di Nietzsche su cui lui stesso almanaccò, ritenendoli espressione visibile del suo coté militare e macho, a quelli sottili e da nazi di Martin Heidegger; anche se la mia predilezione va a un artista che si piccava di filosofia – Dalí – il quale proprio in riferimento a Nietzsche scrisse: “Anche sui baffi mi preparavo a superare Nietzsche! I miei non sarebbero stati deprimenti, catastrofici, zuppi di musica wagneriana e brume; bensì tutto il contrario: affilati, imperialisti, ultra-razionalisti e puntati verso il cielo, come il misticismo verticale, come i sindacati verticali spagnoli”. Mentre un altro poliedrico artista – il Savinio della Nuova enciclopedia – dedicò alla barba una lunga voce, attribuendole cose in apparenza surreali (“la decadenza del romanzo in Europa è in parte da ascrivere alla scomparsa della barba”), assieme ad altre più prosaiche (“guai se una donna s’innamora, oggi, di un uomo con barba: ritorna all’amore schiavitù”), ad altre ancora più poetiche (“quale più profonda espressione aveva la bocca che si apriva in mezzo alla barba, quale più impressionante brillio gli occhi sopra quel folto di pelo, quasi occhi di gigante che guardano di sopra una foresta”).
Infine due sono gli estremi che s’impongono nell’immaginario di barbe e capelli: per gli antichi – mitopoietici e bestiali – la testa serpentina e pietrificante di Medusa; mentre per i moderni – nullisti e tecnocrati – la testa lucente e madida del colonnello Kurtz/Brando in Apocalypse Now. In mezzo, tra la prima e il secondo, oltre ai secoli, ci sta un semplice oggettino plastico, compendio però di tutto ciò che è perfezionato: il monolama di sicurezza della Bic.
![](/assets/2020/images/placeholder_orizzontale.jpg)
La politica e lo schermo