Femminista o pazza. Perché abbiamo ridotto così Giovanna d'Arco
Intorno alla sua figura infuria tuttora un processo: la sua testarda ribellione, la sua visionaria combattività, è modernità e femminismo o necessita di un’ambulanza? Nel processo originale, quello del 1431, i termini erano dissimili ma altrettanto confusi
Sono passati molti secoli dal 1920, quando Benedetto XV canonizzò Giovanna d’Arco per avere operato miracoli nei confronti di tanti feriti durante la Prima guerra mondiale. La canonizzazione, secondo la bolla, mirava a dimostrare ai cristiani che “l’obbedienza ai voleri di Dio è santa e devota”; la santità di Giovanna consisteva dunque nell’abbandonare la famiglia, tralasciare le occupazioni quotidiane, imbracciare le armi e affrontare una sentenza ingiusta, il tutto solo “per eseguire gli ordini divini”. Su queste pagine, intanto, avete letto che è in scena al Regio di Parma la “Giovanna d’Arco” di Verdi nell’allestimento di Emma Dante. Intervistata dal Corriere, la regista sostiene che Giovanna, andando via di casa, ha compiuto “un gesto molto femminista” e che, nella scelta di occuparsi della patria, si può ravvisare la sua “modernità”.
È curioso notare come, dieci anni fa, la medesima “Giovanna d’Arco” avesse inaugurato la stagione della Scala, però nell’allestimento di Moshe Leiser e Patrice Caurier. Anche in questo caso sembrano trascorsi secoli, e non solo perché nel palco reale sedeva il presidente del Consiglio Matteo Renzi. In quella circostanza, la futura santa era rappresentata come una pazza, nel senso diagnostico del termine, con tanto di letto per degenza psichiatrica fisso in scena. Attorno a Giovanna d’Arco, dunque, per certi versi infuria tuttora un processo: la sua testarda ribellione, la sua visionaria combattività, è modernità e femminismo o necessita di un’ambulanza?
Nel processo originale, quello del 1431, i termini erano dissimili ma altrettanto confusi. Filippo di Borgogna consegnò Giovanna al tribunale ecclesiastico con l’accusa di eresia; l’inquisitore Pierre Cauchon indagò sull’evenienza che fosse una strega; gli inglesi, più pragmatici, per screditarla insinuarono che la pulzella fosse una donnina allegra. Giovanna si mostrò fermissima perfino dinanzi alla prospettiva della tortura; vacillò e crollò solo quando le rinfacciarono di vestirsi da uomo, abominio secondo Deuteronomio 22,5. Alla fine, venne messa al rogo dietro settantadue capi d’accusa sparati a casaccio, condannata anche come indovina e bestemmiatrice.
Il problema, con lei, è la coincidenza fra identità e interpretazione. Nella biografia “Giovanna d’Arco. La vergine guerriera” (Mondadori), Franco Cardini la presenta né femminista né pazza: è una ragazza analfabeta che vive a Domrémy, un paesino in cui la devozione si mescola alla superstizione, le madonne alle fate. Il sovrannaturale, per lei, è una presenza quotidiana. Sente voci in un querceto: sono Michele arcangelo, santa Margherita e santa Caterina; nel santuario dedicato a quest’ultima trova la spada a cinque croci, che brandirà conducendo l’esercito francese durante la Guerra dei cent’anni (meno elegante è lo stendardo che fa inalberare: vi è ritratto Dio, stravaccato su un arcobaleno). Il problema, con Giovanna d’Arco, oggi è proprio la santità, tramontata oltre il nostro orizzonte; perciò le sue azioni ci sembrano incomprensibili e, per spiegarle, dobbiamo ricorrere a interpretazioni laicizzanti, che finiscono per cozzare fra loro.
Era un’antesignana del femminismo? Era una malata mentale? In realtà, l’unico riferimento alla pazzia nel non indimenticabile libretto di Temistocle Solera – tratto da “La pulzella d’Orléans” di Friedrich Schiller – si trova nel coro diabolico che tormenta Giovanna: “Tu sei bella, / tu sei bella, / pazzerella, / che fai tu?”. Se a non capire la caparbietà e l’intransigenza della futura santa sono proprio i demoni, un motivo ci sarà. In fondo Giovanna d’Arco è morta a diciannove anni, meno di quanti sarebbero dovuti trascorrerne fino alla riabilitazione ecclesiastica postuma, nel 1456. Ci vorrà il Novecento affinché arrivino in rapida successione la beatificazione, sotto Pio X, e la santificazione, come patrona di radiofonisti e telegrafisti. Una scelta molto moderna, in effetti, se solo la santità non ci sembrasse un ferrovecchio dimenticato chissà dove.