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la riflessione
La cultura di massa, l'università e lo studioso che non legge perché studia
I linguisti hanno ormai fuorviato, corrotto non pochi studiosi di letteratura, avvertendo che la linguistica per essere scienza deve essere rigorosamente descrittiva e non prescrittiva. Quindi, per loro, quando devono scegliere esempi di uso lessicale o sintattico, si servono impassibilmente, tanto di Manzoni o Calvino che di Erri De Luca o Nicola Lagioia
Vedo che si torna a discutere di università. Giustamente, credo, nel senso che di ragioni per farlo ce ne sono molte e sempre di più, da vari punti di vista. Al primo posto il fatto che le trasformazioni culturali e sociali determinate dai nuovi (e sempre nuovi) media informatici e dall’orizzonte dell’intelligenza artificiale impongono riflessioni radicali sulla vita umana e sul rapporto fra umanesimo e uno sviluppo tecnologico ininterrotto, fuori controllo e senza limiti. La cosa più preoccupante è proprio nella nostra incapacità di prevedere, di concepire limiti umani a un tale sviluppo.
Il tema è enorme, sia dal punto di vista etico-antropologico che fisico-ambientale. Noi esseri umani, e anche il nostro pianeta, siamo caratterizzati e definiti proprio dall’avere limiti di ogni genere, che tra l’altro hanno sempre reso ardua e appassionante la nostra ricerca dei modi in cui accettarli e affrontarli, quei limiti, sia come singoli individui che in quanto genere umano.
L’università è un’istituzione culturale e un’organizzazione amministrativa, cioè economica e burocratica. Leggendo qualche articolo sulla crisi attuale dell’università e sui compiti futuri da prevedere, ho avuto però l’impressione che si tenda a parlarne ancora una volta più in termini politici, amministrativi, produttivi che culturali. In un mondo sempre più invaso da una fatua e ottusa cultura di massa, l’università sembrerebbe rappresentare a prima vista quanto resta dell’alta cultura. Questo tuttavia è vero solo in parte. Negli ultimi decenni, infatti, lo spirito della cultura di massa (facilità di consumo, comunicazione veloce, elaborazione semplicistica) è ampiamente entrato anche nell’università. La cultura cosiddetta alta è diventata più sensibile al mercato, all’industria della cultura e alla sua ottica commerciale. Per “aggiornarsi” e “democratizzarsi” la cultura universitaria si è convinta che sia un bene scendere in basso, essere vendibile, ubbidire alle mode, magari anche a quelle ipnotico-esoteriche che mirano a soddisfare uno snobismo di massa sempre più ridicolo, ma che in vario modo è sempre esistito (come ci ha insegnato Molière). Del resto la cultura dei graffiti che sommergono e deturpano qualunque parete vuota, è una cultura provocatoria della non-comunicazione: è fatta di pseudo verbalità indecifrabili che usano alfabeti immaginari alludendo a messaggi provenienti da un altro mondo. Forse c’è un rapporto fra la cultura dei graffiti e quella degli studenti che si iscrivono alle università: una cultura della comunicazione che non comunica altro che un rifiuto di comunicare, anche se poi convive con quell’uso compulsivo dello smartphone che ha letteralmente creato in pochi anni un’umanità nuova, un panorama urbano nuovo, che alcuni definiscono con soddisfazione postumani.
Come parlare a questo tipo di massa studentesca? Che formazione universitaria offrire a un individualismo di massa che per via mediatica sta perdendo il senso della realtà con la mutazione o abolizione di spazio, tempo e rapporti di causa ed effetto?
Come si vede, non sono in grado di intervenire nell’attuale discussione sull’università se non parlando d’altro, di quell’altro che sta fuori ma anche dentro l’università, o che da fuori la assedia. Credo comunque che il problema sia questo: il rapporto fra l’università come ecosistema culturale e tutta la cultura più o meno alta o bassa che non ha rapporti significativi con il sistema universitario.
Avendo dato nel 1995 le mie dimissioni da docente universitario di letteratura moderna e contemporanea, soprattutto per noia e voglia di cultura extrauniversitaria, mi pare che la progressiva accademizzazione internazionale della cultura tra fine Novecento e Duemila abbia impoverito e burocratizzato soprattutto le discipline umanistiche. Il modello scientifico-teorico-metodologico con cui si è creduto di migliorare lo studio letterario, ha invece soprattutto nuociuto all’attitudine critica, senza cui lo studio non basta. Le scienze umane, le humanities, come si dice ora internazionalmente, credono di essere più scientifiche nella misura in cui sono “avalutative”, cioè non disposte al giudizio di qualità e di valore. Si crede (burocraticamente, amministrativamente) che tutto ciò che entra a far parte della categoria “insiemistica” detta “cultura” sia di per sé un valore, anche quando non ha valore.
Gli scienziati sociali più intrinseci allo studio letterario, i linguisti, innamorati come sono della propria scientificità di studiosi, hanno fuorviato, corrotto non pochi studiosi di letteratura, avvertendo che la linguistica per essere scienza deve essere rigorosamente descrittiva e non prescrittiva. Quindi, per loro, quando devono scegliere esempi di uso lessicale o sintattico, si servono impassibilmente, atarassicamente, tanto di Manzoni o Calvino che di Erri De Luca o Nicola Lagioia.
Ormai è passato un secolo da quando è considerato letteratura tutto ciò che possiede la letterarietà, definita come una funzione linguistica più che come qualità stilistica. Insomma l’università è il posto in cui si studia, si fa ricerca, si fa didattica per trasformare in ipotetici studiosi ogni tipo di lettori. Lo studioso infatti non legge, perché studia. Leggere non è per lui professionale. Proprio così.
E nel futuro? A giudicare dalla tendenza fino a oggi dominante, la cosiddetta “informatica umanistica” avrà quantitativamente la meglio anche nell’alta cultura universitaria, o soprattutto lì. Robotizzazione del ricercatore umano o umanizzazione dell’intelligenza artificiale? Le due cose si somigliano, sono due facce della stessa cosa. Secondo Calvino, solo i classici ci salveranno. Ma bisogna leggerli. E per questo ci vogliono soprattutto scuole di lettura per ogni genere di lettori. E che il miglior passato ci salvi dal peggior futuro.
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L'edizione d'arte del 1923
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