Lo scrittore britannico Jonathan Coe (foto Epa, via Ansa)

in libreria

Torna Jonathan Coe con un giallo metaletterario, scuola di scrittura che si fa sul campo

Valentina Berengo

"La prova della mia innocenza" è un libro che tiene insieme tutti i temi cari allo scrittore britannico: dalla lettura politica della vita e delle dinamiche sociali, oltre che private, a uno sguardo ironico sul mondo

"Non tutte le verità si equivalgono, per quanto uno ci creda sinceramente” si legge in "La prova della mia innocenza" (Feltrinelli), il nuovo romanzo del britannico Jonathan Coe, a tratti sperimentale ma ben incardinato nella sua produzione.

   

Si tratta di un libro che tiene insieme tutti suoi temi: dalla lettura politica della vita e delle dinamiche sociali, oltre che private, a uno sguardo ironico sul mondo, proprio di chi lo guarda per quello che è pur ipotizzandone i movimenti più oscuri. La prova della mia innocenza ha digerito "La famiglia Winshaw" e le dinamiche grette del potere, e conserva lo sguardo beffardo de I terribili segreti di Maxwell Sim e del suo venditore di spazzolini ecologici.

 

E allora cos’è cambiato?

 

Innanzitutto questo romanzo, semplificando, è un giallo. Quantomeno c’è un morto e qualcuno che indaga. Ma, come sempre più spesso succede nella letteratura contemporanea, lo schema del genere è scardinato per aprirsi, in questo caso, ad altri tre.

 

La storia comincia, infatti, presentandoci una ragazza, Phyl, che vuole scrivere, e in una chiacchierata con la neoamica Rashida, figlia adottiva di un amico dei genitori, capisce che ha tre possibilità. “Le sue opzioni di scrittrice alle prime armi consistevano in: 1. cosy crime; 2. dark academia; 3. autofiction”. E Jonathan Coe, in una scuola di scrittura che si fa sul campo, procede a mettere sulla pagina un romanzo che percorre, in tre parti, questi tre generi, conservando l’unità necessaria a districare i nodi di un libro solo, integro, canonico. Lo stratagemma è sempre lo stesso: quello del manoscritto, ossia la metaletteratura. I romanzi che leggiamo dentro al romanzo lo sono essi stessi, compiutamente, e vengono ritrovati a mano a mano che Phyl vive (o scrive?) e l’evento criminoso oggetto del primo (il cosy crime) porta all’esistenza di un detective che deve indagare e spingere l’azione a una risoluzione.

 

Il morto è il padre di Rushida, Christopher Swann, un noto blogger abbastanza scomodo, che, a una conferenza di eminenti personalità e studiosi conservatori, viene ritrovato morto nella sua stanza cui si aveva accesso, anche, tramite un passaggio segreto collegato a due altre camere della residenza. La bizzarria del fato vuole che a quell’incontro politico si discutesse invero di letteratura e di uno scrittore sottovalutato da riportare in auge.

 

E’ come se Coe ci volesse mostrare la valenza politica del gesto dello scrivere, farci capire che il confine osmotico tra le idee manifestate e quelle tradotte in parola è davvero molto permeabile e la sua, dello scrittore, abilità di “svolgere il tema” in tre tonalità – che si tengono e rafforzano – ne è la definitiva conferma. “Per definizione, l’atto stesso dello scrivere è un gesto selettivo, e da qui la distorsione, da qui l’invenzione”. Poi, il giallo c’è. E anche molto brillante.

Di più su questi argomenti: