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La nuova poesia

Versi non polverosi per scoprire le direzioni che ha preso la poesia italiana

Matteo Marchesini

Stefano Modeo, Marilena Renda, Giovanni Turra: poeti moderni in cui si sente l'eco dei classici, assimilando il passato per poi declinarlo nella propria contemporaneità

Dove va la poesia italiana? La poca che riesce a evocare intorno a sé quel po’ d’aria senza la cui resistenza, come la colomba di Kant, volerebbe solo per finta, non procede in una direzione unica. Laconico oggettivismo o pathos orfico, tutte le poetiche vanno bene, purché funzionino in re; tutto può essere contemporaneo, se la scrittura lo rende tale. 

Esemplare è il caso del trentacinquenne Stefano Modeo, che in “Partire da qui” (Interno Poesia) ripropone il contrasto tra la vita di emigrato al nord e una Taranto quasi atemporale con mezzi molto novecenteschi, eppure non sembra mai polveroso. Anafore da canzone incerta tra settenario e novenario, versi sghembi come pietre di un muro a secco che s’incastrano grazie alle rime epigrammatiche, aspre o ingenue: si sentono gli echi di Carrieri ma anche di Gatto e Sinisgalli, di Penna e del Saba mediterraneo, corretti qua e là da angolose allegorie alla Fortini. Spiccano i pescatori, i tamarri, le carcasse industriali. Ma la cosa più poetica è il gioco a nascondino tra il padre che vede l’erede, ormai in una città sconosciuta, “restare indietro in un corteo / come il fischio di un treno”, e il figlio rivolto al genitore che “in mare si allontana / ogni tanto prende fiato e ci guarda. / Forse lontano vorrebbe dirci di lui / ma non si riesce a sentire se parla”. 

Non meno lirica e mediterranea è Marilena Renda, nata nel 1976. Ma il lirismo del suo “Cinema Persefone”, edito da Arcipelago itaca, è difeso da uno straniamento formale e tematico per così dire obliquo ai sentimenti. Altrove, Renda ha scritto che le madri sono “buone come la terra / e la terra è buona anche quando non lo è affatto”: e anche lì rimandava alla vicenda degli dèi siciliani che fonda l’emergere di giorno e notte, di bene e male. Coerenti col mito, i nuovi testi giocano su ripetizioni e varianti. Sapendo che ai misteri si può appena accennare, la voce poetica lascia sulla pagina ragnatele di versi esili come un Calder, oscillanti tra l’epigrafe semicancellata e il chiacchiericcio indiretto.

La “trama”, nel cui buio oltre a Persefone s’intravede Psiche, evoca una coppia decisa a ritrovare Amore oltre l’odio, la paura, la luce del concepimento e della disillusione, su una strada che anche qui va dal sud a un nord nebbioso. Prima di arrendersi alla routine, Ade veste da Bogart e da beat, e il ciclo di morte e rinascita diventa l’alibi di una Storia virtuale che non porta più progressi: “Va bene la precarietà ma hanno sempre dei soldi / durante le epidemie prosperano con Satispay / il segreto è non pensare che il bene sia bene, / pane al pane, male al male / non decidere niente (…) il signore dei mondi è sempre seduto sulla merda / e se non vai all’inferno l’estate non germoglia”. 

Ancora diverso è il caso di Giovanni Turra, classe 1973, che in “Peepshow” (Samuele Editore) raccoglie trent’anni di lavoro nato da un’assimilazione intelligente di tanto ’900 soprattutto lombardo, e della lezione di fratelli maggiori come Villalta e Fiori. Qui però sotto l’essenzialità minimalista preme un autobiografismo elegiaco, cui fa da contrappeso un più esplicito Perturbante. I dettagli domestici e corporei si deformano come in uno specchio convesso, divenendo estranei; e il cuore di questa poesia, il condominio periferico, appare come l’embrione di ogni minaccia geopolitica: “Domenica. / Indugia nelle scale / con i fumi dell’arrosto / un odore di canile. / Siamo noi: / casalinghi / e ferocissimi”.

Come in Modeo, in Turra troviamo il gusto epigrammatico, gli uomini vinti simili a bestie da soma, l’Italia paterna del boom. Come in Renda, tutto ruota qui intorno a un centro sinistramente vuoto. Qualcosa è accaduto: un suicidio, un terremoto, un’invasione silenziosa. Nell’“inventario di reliquie” di una casa degna del primo Raboni, si scopre a un tratto “uno sgabello scalciato in là, / con un nodo in cima”. Spesso l’economia stilistica serve a un’amara parodia crepuscolare. Così nei versi su una badante “maestra di piano moldava”, che lascerebbe morire di emicrania “un’inconsolabile vedova Ferri”, il poeta, come un classico sentenzioso, ricorda alla vicina intenta a spiarle “sopravvento” che le sue dirimpettaie “di fianchi forti furono entrambe / e belle, come te”.
 

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