FACCE DISPARI

Vittorio Giardino: “La storia degli ebrei nel 1938 racconta il dramma di tutti gli esuli”

Francesco Palmieri

Il fumettista bolognese racconta la nuova avventura di Max Fridman, tra spie, esuli e storia: "Lavoro in solitudine, senza rinunciare ai miei princìpi". Intervista

Vittorio Giardino appartiene alla specie dispari dei solitari estroversi, dei creativi più da mansarda che da talk show, di chi racconta un tempo in cui non è vissuto per spiegare quello in cui vive, lavorando con lentezza a dispetto degli editori che incombono dietro la porta. Tra i più noti fumettisti italiani, Giardino è tradotto in quattordici lingue e amatissimo in Francia, forse perché è un ebreo francese il suo più noto personaggio, Max Fridman, protagonista di spy story ambientate negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e che ricorda nelle fattezze il suo creatore, anche se questi ha smesso di fumare la pipa, non impugnerebbe una pistola né smania per muoversi da Bologna, dove è nato e si trova benissimo perché, dice citando Guccini, è “una bohème confortevole”.

 

C’è qualcosa di autobiografico in Fridman, al di là della somiglianza?

Non ho mai pensato a storie autobiografiche perché ho una vita poco interessante. Per fortuna: le vite meritevoli di narrazione non sempre sono le più felici. È preferibile un’esistenza tranquilla a una che ti porta a scrivere “Se questo è un uomo”.

 

Non è tentato di ambientare i fumetti nel presente?

Non mi sento di inventare storie i cui protagonisti sono ancora vivi. Sull’attualità devono lavorare i giornalisti, a me serve da spunto: la guerra in Jugoslavia m’ispirò i fumetti nella guerra civile spagnola “No Pasarán”; la caduta del Muro di Berlino offrì emozioni per i tre albi su Jonas Fink, il piccolo ebreo praghese.

 

Lei visitò i paesi del Blocco orientale.

Prima di dedicarmi interamente ai fumetti facevo l’ingegnere elettronico e viaggiavo nei Paesi socialisti da progettista di robotica industriale: alcuni brevetti per macchine utensili potevano avere anche impiego militare, sicché in Ungheria l’interprete non mi mollava mai ma avvertì: “Dovrò fare rapporto su ciò che lei dice e fa”. E risolse in modo umano la spinosa situazione. Ricordo un’altra volta, in una birreria di Praga, che entrarono due soldati dell’Armata Rossa e si fece il vuoto attorno. Provai pena: erano ragazzi che avevano solo voglia di bere, ma la divisa li rendeva insopportabili. Capii che non poteva durare.

 

Dove ha collocato la prossima storia?

È un’avventura di Fridman cui ho lavorato quattro anni: s’intitola “I Cugini Meyer” e uscirà in primavera. Si svolge quasi tutta a Vienna all’epoca dell’Anschluss, fra il 1938 e il 1939. Anche per questa storia lo spunto viene dall’attualità degli esuli che attraversano il Mediterraneo rischiando la pelle. Ricorda la nave albanese Vlora nel 1991? Il più grande sbarco di migranti in Italia? A bordo c’erano miei parenti, i primi tre dei dodici che sarebbero arrivati dopo una vita grama in cui li avevamo aiutati mandando denaro. Ma anche se avessimo ottenuto il visto, ci scongiuravano di non andare a trovarli perché gli avremmo procurato guai.

 

Gli esuli del ’38 erano ebrei austriaci e tedeschi. Vede una ripresa di antisemitismo?

Sono abbonato a varie riviste ebraiche, a una ho collaborato. Dopo il 7 ottobre 2023 me le spediscono dentro un foglio bianco cellofanato.

 

“I Cugini Meyer” cosa racconta?

Che l’idea di rifiutare l’estraneo non è nuova. Quando ci fu l’annessione dell’Austria, la politica del nazismo non puntava ancora all’eliminazione fisica degli ebrei ma alla loro espulsione dal Reich. Gli stati democratici organizzarono a luglio del ’38 una Conferenza, che la Svizzera non volle ospitare e si tenne a Évian in Francia. Si cercava un accordo sull’accoglienza dei profughi ebrei, ma non si trovò. I “no” poggiavano su varie motivazioni: addirittura l’Australia, come se gli aborigeni non esistessero, disse di non voler importare problemi razziali che non aveva. Furono pochi e piccoli gli stati che aprirono i confini, come la Repubblica Dominicana. Mi sono chiesto: se a Évian avessero saputo come andava a finire, sarebbero stati più disponibili? Non ne sono affatto sicuro.

 

Il fumetto ha una conclusione amara?

Non troppo tragica ma nemmeno a lieto fine. Ho sposato una massima: non sempre la legalità corrisponde alla giustizia. Forse mi apprezzerà una minoranza, ma non voglio rinunciare ai miei princìpi. Altrimenti continuavo a fare l’ingegnere.

 

È stato in Israele?

Sì, e ne ho ricavato impressioni nette. La gradevolezza laica di Tel Aviv rispetto a Gerusalemme, dove ogni pietra gronda sangue per una ortodossia fanatica che non è stata solo di una parte. L’altra impressione è l’esiguità del territorio, per cui non credo possibile l’esistenza di due stati.

 

È più faticoso un progetto di ingegneria o un fumetto?

Entrambi in modo diverso. La cosa difficile è trovare la storia giusta, poi lavoro in assoluta solitudine su sceneggiatura e disegni, a differenza di un regista che governa una impresa temporanea piena di individualità. Non potrei reggere a una situazione tipo “Effetto notte”.

 

C’è una cifra bolognese nel suo lavoro?

La tavolozza: Bologna aveva, ora un po’ meno, una omogeneità cromatica dall’ocra al rosso bruno che mi è entrata negli occhi. E poi una certa ironia benevola, a differenza di quella toscana pungente, della napoletana che è figlia di delusioni storiche e della romana di chi non crede più a niente. Bologna conserva un fondo solidale ereditato dai primi moti socialisti e da un comunismo che non entrava in segreteria nazionale perché sapeva di riformismo, di cattolicesimo sociale. Persino i democristiani votavano Giuseppe Dozza sindaco. Ora invece i letti agli universitari fuorisede si affittano a milleduecento euro al mese.

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