Monica Barbaro è Joan Baez e Timothée Chalamet è Bob Dylan in “A Complete Unknown” di James Mangold 

Una voce, un mito, tante canzoni

Bob Dylan in un'America di sogni, proteste e chitarre

Vittorio Bongiorno

Che festa, il film “A Complete Unknown”, dagli esordi al Newport Folk Festival. L’affresco di un’epoca e del suo alfiere che però si sentiva “un cowboy, non un pifferaio magico”

Il giorno che Bob Dylan imbraccia la chitarra elettrica per suonare al Newport Folk Festival 1965 non è da solo: per la prima volta appare in pubblico con una band vera, con strumenti elettrici, ma soprattutto, nonostante i fischi di qualche spettatore e l’ira degli organizzatori, il musicista è idealmente con tutti i ragazzi e le ragazze che pensano basti una canzone per cambiare il mondo, dando vita al rock come voce di un’intera generazione. Una voce che, da sessant’anni, si riverbera in ogni luogo della terra, contro ogni regime e politica, e si rinnova ogni giorno per ribadire che sì, io sono qui e voglio essere libero di essere me stesso.

  
“Io alla fattoria di Maggie non ci lavoro più. Faccio quello che posso per restare quello che sono ma tutti qui pretendono che tu sia come loro. Loro cantano e tu sgobbi, e io sono stufo. Io alla fattoria di Maggie non ci lavoro più”, canta a squarciagola in Maggie’s Farm con cui apre il suo secondo concerto di Newport scioccando tutti i presenti, identificando quella fattoria metaforica come un governo oppressivo e razzista e consegnando la canzone alle future battaglie contro ogni totalitarismo.

 

James Mangold ha saputo raccontare con grazia e qualche piccola opportuna infedeltà un momento storico irripetibile, dal ’61 al ’65

  
E’ la scene chiave del film A Complete Unknown di James Mangold, tratto dal bel libro di Elijah Wald Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica (Vallardi, 2022), un appassionato biopic di stampo tradizionale, diretto da un regista che ha saputo raccontare con grazia e qualche piccola opportuna infedeltà un momento storico irripetibile: i primi cinque anni di attività di Dylan, dal 1961 al 1965, con l’esplosione delle canzoni di protesta che hanno incendiato le coscienze della generazione dei “figli dei fiori”, nonché il presunto “tradimento” elettrico perpetrato nel Tempio della musica folk il 25 luglio 1965 dal menestrello che voleva semplicemente essere se stesso e non il profeta di una generazione. Non si fischietta in chiesa, diceva qualcuno, e non si suona rock a un festival folk.

    

Parlando di miti e divinità, girare un film sulla vita di Bob Dylan, dunque, è come fare un film su Dio: su quale periodo della sterminata carriera del creatore di mondi concentrare l’attenzione? Quali vangeli e testimoni ascoltare per scrivere la sceneggiatura? E, non ultimo, quale attore chiamare a interpretarlo, che sappia essere credibile come Lui? Il film, nonostante le critiche dei fedelissimi dylaniani, ha però la capacità di riportare l’attenzione a un periodo storico in cui sembrava davvero che bastassero una chitarra e tre semplici accordi per cambiare il mondo. Piacerà sia a chi aveva vent’anni allora ma soprattutto a chi ha quell’età oggi: la generazione di ragazze e ragazzi nati con uno smartphone in mano per cui la musica è scelta da un fottuto algoritmo. Questi ragazzi oggi hanno la possibilità di assistere a uno spettacolo magico dove, proiettati su un grande schermo condiviso chiamato cinema, due attori della loro età che somigliano in modo impressionante a Bob Dylan e Joan Baez cantano, dal passato, del loro futuro. 

    

“Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà assolutamente credibile”, ha scritto lo stesso Dylan su X, benedicendo la sceneggiatura

  
Racchiudere la vita di un artista complesso, controverso e per molti aspetti ancora misterioso in un film di poco più di due ore è pressoché impossibile. Prima di questo, candidato a otto premi Oscar, ci hanno provato di recente due volte Scorsese con i documentari No Direction Home (2005) e Rolling Thunder Revue (2019) e Todd Haynes con I’m Not There (2007), dove l’enigma Dylan era raccontato attraverso ben sei personaggi (il più sorprendente interpretato da una straordinaria Cate Blanchett). James Mangold, insieme all’ottimo sceneggiatore Jay Cocks, fidato collaboratore di Scorsese, ha tentato di raccontare l’irraccontabile attraverso il classico archetipo del viaggio dell’eroe, limitando l’arco temporale a pochi anni, aggiustando qualche evento funzionale alla storia e sfruttando la camaleontica capacità della star Timothée Chalamet di essere Dylan. O, almeno, una versione di Dylan.

   

L’attore ha candidamente confessato di non sapere granché sul musicista prima di cominciare la lunga lavorazione interrotta dal Covid e dagli altri suoi film: si è semplicemente messo a studiare musica e, negli ultimi cinque anni, ha affinato la tecnica chitarristica e canora per poter suonare brani iconici come Blowin’ in the Wind, Mr. Tambourine Man e Like a Rolling Stone ed essere credibile. Tanto che, a sorpresa, Lui ha scritto su X, ex Twitter: “Tra poco uscirà un film su di me, intitolato A Complete Unknown (che titolo!). Timothee Chalamet è il protagonista. Timmy è un attore brillante, quindi sono sicuro che sarà assolutamente credibile nel ruolo di me. O di un me più giovane. O di un altro me stesso. Il film è tratto da Dylan Goes Electric di Elijah Wald, un libro uscito nel 2015. E’ un fantastico racconto degli eventi dei primi anni 60 che portarono al fiasco di Newport. Dopo aver visto il film, leggete il libro”. Con la solita inafferrabile zampata a cui ci ha da tempo abituati, e con il consueto pizzico di ambiguità, Dylan in persona ha detto chiaramente che in quel racconto non c’è proprio lui, ma uno dei suoi tanti sé. E che è un buon film.


“Quanti anni può resistere una montagna prima di venire spazzata dal mare? E quanti anni devono vivere alcune persone prima che venga accordata loro la Libertà? E quante volte un uomo può girarsi dall’altra parte e fingere di non vedere? La risposta, amico mio, soffia nel vento”. 


E’ una strofa della celebre Blowin’ in The Wind, che tutti abbiamo sentito alla radio e fischiettato, in tanti film e perfino in uno spot pubblicitario, che oggi ci viene riproposta come se accadesse sotto i nostri occhi. In quanti, tra i meno giovani, ricordavano le parole? E quanti, ascoltandola oggi per la prima volta, si sono stupiti della sua bellezza senza tempo? Come se anche noi fossimo seduti sulle scomode panche del Newport Folk Festival del 1963, e sul palco ci fosse un perfetto sconosciuto vestito come un vagabondo che canta con la più bella e famosa cantante folk, alla fine della prima delle due mitologiche apparizioni a Newport, molti spettatori in sala hanno versato qualche lacrima. E persino applaudito come se Bob e Joan fossero davvero lì sul palco a celebrare quel rito collettivo di pace, amore e rivoluzione. Il senso del film di Mangold è tutto qui ed è perfettamente inutile accanirsi sui “falsi” della sceneggiatura: il personaggio di Dave Van Ronk, fondamentale per la crescita musicale di Dylan, qui fa solo una comparsata; Johnny Cash non era presente a Newport ma scriveva davvero lettere appassionate al suo “figlio musicale adottivo” Bob; il famoso “Giuda!” urlato da uno spettatore a Newport è in realtà avvenuto l’anno dopo a Manchester e così via. E Pete Seeger, il “padre putativo” di Bob, che rappresentava la tradizione della musica folk, ha preso davvero l’ascia per tagliare i cavi durante l’esibizione elettrica di Dylan e della sua band? Chissà: Mangold apporta piccoli aggiustamenti in funzione della miglior fruizione della storia che, tra l’altro, è stata letta, corretta e approvata da Lui in persona: Bob Dylan, quello vero, alla fine delle varie letture della sceneggiatura lo ha congedato con un laconico “vai con Dio”.

   
Scrive Elijah Wald nel suo libro: “In uno schema semplificato, Seeger e Dylan rappresentano i due ideali che definiscono l’America: Seeger è dalla parte della democrazia, della collaborazione, dell’aiuto reciproco, della gente che crede, vive e tratta i suoi simili come membri di una società ottimista di pari; Dylan è il rude individualista che sopravvive nella natura selvaggia, senza dipendere da nessuno se non da se stesso”. 

   

“Cercai di spiegare che io non pensavo di essere un cantante di protesta, c’era stato uno sbaglio. Io non stavo protestando contro un bel niente”

   
Il menestrello vagabondo Robert Allen Zimmerman, nato a Duluth Minnesota il 24 maggio 1941, arriva a New York viaggiando clandestinamente su un treno merci e comincia a esibirsi nei locali fumosi del Greenwich Village come il Cafe Wha? il Gaslight, il Kettle of Fish, il Folk City. Nessuno sa chi sia questo ragazzo dai capelli a carciofo e la chitarra acustica a tracolla. Forse quel viaggio clandestino era addirittura una balla, la prima di tante, ma poco importa, il suo racconto sembra funzionare e le sue canzoni ancora di più. Arriva in città nel 1961 alla ricerca del suo mito Woody Guthrie che va ripetutamente a trovare in ospedale quando ormai il musicista è bloccato in un letto colpito dal morbo di Huntington: questo ragazzino appena ventenne riceve da Guthrie e Seeger il testimone ideale per continuare a suonare e cantare le canzoni folk e portare nuova legna al fuoco della protesta, che loro tenevano acceso in religioso rispetto. Ma Bobby, come si fa chiamare all’inizio, ascolta e suona anche il blues dei neri, John Lee Hooker, Jimmy Reed e l’altro suo mito Little Richards, che forgia a suon di poderosi acuti il primo rock and roll. Guthrie, poi, era famoso per l’adesivo attaccato alla chitarra this machine kills fascists, questo strumento uccide i fascisti, una frase politicamente molto netta, ma quando a Bobby chiedono che musica suoni, definisce le sue canzoni folk come canzoni che la gente si passa di mano in mano. Niente di più, niente di meno, canzoni vere, nulla di politicamente esplicito ma, forse, per questo ancor più profonde e universali. La sua carriera non è ancora cominciata ufficialmente, ma già percepisce qualcosa che non gli piace. Nella sua autobiografia Chronicles. Volume 1 (Feltrinelli, 2004) Dylan lo scrive in modo inequivocabile: “In seguito cercai di spiegare che io non pensavo di essere un cantante di protesta, che c’era stato uno sbaglio. Io non stavo protestando contro un bel niente, non più di quanto Woody Guthrie avesse protestato contro un bel niente. Non pensavo a Woody come a un cantante di protesta”.


Nonostante ciò la miccia è innescata: una sera al Folk City la regina del folk Joan Baez intona una toccante versione di House of the Rising Sun, uno degli inni anti-war per eccellenza, che racconta della “casa chiusa” dove vivono le ragazze perdute, le prostitute di Storyville, a New Orleans. Joan e Bobby si scambiano un’occhiata fulminante. Dopo l’esibizione Pete Seeger si complimenta con lei e presenta l’artista successivo dicendo che insieme a Woody Guthrie lo ha sentito suonare e di aver capito che “poteva esserci una nuova strada. Volevamo condividere questa sensazione. Ha suonato un po’ in giro per la città, ma ho pensato che fosse giunto il momento di farlo salire sul palco di Folk City. Salutate il mio amico Bobby Dylan”. Bobby sembra timido ma ha una gran parlantina, indossa vestiti da vagabondo e ha una massa di capelli a carciofo. Fa qualche battutina mentre accorda la chitarra, in fondo è un perfetto sconosciuto, nessuno sa da dove sia arrivato né cosa stia per suonare. Joan sta per uscire dal locale, si volta e i loro due sguardi si riallacciano nuovamente un attimo prima che lui attacchi a suonare e cantare una ballata fragile e delicata come I Was Young When I Left Home: “Ero giovane quando me ne sono andato di casa, e sono stato in giro a vagabondare e non ho mai scritto una lettera a casa. Proprio l’altro giorno stavo portando a casa la paga quando ho incontrato un vecchio amico. Mi ha detto tua madre è morta e le tue sorelle si sono perse sulla cattiva strada e tuo padre ha bisogno di te a casa”.


Non sappiamo cosa sia successo veramente quella sera al Folk City, anche perché ognuno dei testimoni che ha assistito all’apparizione di Dylan ha sempre tramandato la propria versione. Ma Mangold riesce a catturare limpidamente il momento in cui tra i due giovani musicisti nasce qualcosa di più profondo di un’intesa artistica, di una condivisione di intenti, di un amore. E, soprattutto, Bobby Dylan diventa Bob Dylan, uno di loro. 

  

Il primo disco di brani tradizionali riarrangiati passa inosservato, poi arriva “Blowin’ in the Wind”. Riproposta in tutto il mondo, da noi la cantò Tenco

   
“Nel quinquennio successivo”, continua Elijah Wald nel suo libro, “il rock diventa la colonna sonora della controcultura, della New Left, della contestazione giovanile, dell’allargamento della coscienza: ‘Fanculo il sistema’, ‘Accenditi, sintonizzati, abbandonati’, ‘Libera la tua mente, e il culo la seguirà’. E Bob percepisce subito questo cambio epocale”. Il suo primo disco di brani tradizionali riarrangiati, pubblicato nel marzo 1962, passa inosservato. Il secondo The Freewheelin’ Bob Dylan, Bob Dylan a ruota libera, pubblicato nel maggio del 1963, è invece un successo: grazie soprattutto al singolo Blowin’ in the Wind che diventa immediatamente il simbolo della canzone di protesta riproposta in tutto il mondo da decine di altri interpreti (in Italia la traduce Mogol per Tenco). 

  

Su richiesta di Dylan, il personaggio della fidanzata Suze Rotolo viene cambiato in Sylvie Russo (lei immortalata sulla copertina del disco)

  
Bob incontra la pittrice Suze Rotolo, che viene da una famiglia italoamericana di attivisti iscritti al Partito comunista, che si innamora follemente di lui e lo inizia alla pittura e soprattutto alla poesia di Rimbaud. Nel film, su richiesta di Dylan stesso, il personaggio della fidanzata viene cambiato in Sylvie Russo (la Rotolo, immortalata nella copertina del suo secondo disco, è scomparsa nel 2011) ed è anche lei che indirizza il fidanzato ai temi dell’uguaglianza e della libertà. Ma il successo e i fan scatenati che cominciano a perseguitarlo diventa sempre più opprimente, e Bob comincia a sentirsi in una trappola: si fa sempre più elusivo e misterioso, il che lo rende ovviamente ancora più affascinante, soprattutto con le donne.


A un certo punto del film A Complete Unknown c’è una scena chiave in cui Dylan va al McAnn’s a sentire una giovane band che suona una musica nuova e rumorosa. Una donna lo riconosce, urla e lo indica a tutti. Lui cerca l’uscita ma si prende un pugno in faccia, prima di riuscire a scappare. Sono le quattro di mattina e piomba a casa di Sylvie, da cui si è separato, lei ha un nuovo fidanzato che dorme nell’altra stanza. “Tutti mi chiedono da dove vengono le canzoni, Sylvie”, le dice Bob a pezzi, “ma se guardi le loro facce, non si chiedono da dove vengono le canzoni. Si chiedono perché non sono venute in mente a loro”.
E’ un momento di grande confusione ed eccitazione insieme, la musica è diventata la colonna sonora del Movimento, la struttura portante delle manifestazioni e delle marce pacifiste. Il 28 agosto 1963 a Washington Martin Luther King pronuncia lo storico discorso I have a dream davanti a 250 mila giovani che marciano per il lavoro, l’uguaglianza e la libertà. Nel film non si vede ma Joan e Bob partecipano cantando lei We Shall Overcome, noi ce la faremo, un vecchissimo gospel di inizio ‘900, e lui When the Ship Comes In, una ballata che mescola Bertolt Brecht e Kurt Weill e il vangelo di Matteo, con una nave che arriverà a riparare i torti del mondo. All’altro gruppo in ascesa, Peter Paul and Mary, il compito di cantare Blowin’ In The Wind. E’ la consacrazione definitiva, ma Bob è sempre più contrariato. Nella sua autobiografia lo scrive inequivocabilmente: “Il mio destino percorreva la sua strada, qualunque cosa la vita gli portasse, e non aveva niente a che fare con l’essere il simbolo di una qualche forma di civiltà. Restare fedeli a se stessi era l’unico imperativo. Io ero un cowboy, non un pifferaio magico”.


Nonostante abbia inciso solo due album, non sopporta i 45 giri vuoti che le case discografiche stampano solo per scalare le classifiche. Lui si veste come James Dean in Gioventù bruciata e va in giro su una moto Triumph come quella cavalcata da Marlon Brando ne Il Selvaggio, il ribelle che rifiuta la società perché è l’unica cosa che può fare. 


Nel bellissimo saggio Quante strade (Arcana, 2013) il critico Alberto Crespi intervista, tra gli altri, Francesco De Gregori, il più dylaniano e dylaniato musicista italiano, che racconta l’autentico choc di quando suo fratello maggiore gli fece ascoltare The Freewheelin’ Bob Dylan: “Tutto un mondo cambiò. Le mie orecchie da adolescente furono sconvolte da un sistema vocale completamente diverso, e soprattutto da tutt’altra credibilità. Lui era un cantante, Peter Paul and Mary erano degli interpreti. Dal suono e dalla voce derivano la sua concretezza, quella che io definisco la sua plausibilità. Ascoltando Dylan senti che è vero, autentico, solido”.


“Su venite, signori della guerra, dico a voi che create le armi, voi che fate aeroplani di morte, voi che fate le bombe giganti, voi che state nascosti dai muri, o nascosti dai vostri scrittoi, una cosa dovete sapere, che con me la vostra maschera non serve”, canta Bob in Masters of War, ma già un paio di canzoni dopo, nello stesso disco, intona qualcosa di profondamente diverso, e dolce.


“Dove sei stato, figlio mio adorato? Mi sono imbattuto nel fianco di dodici montagne avvolte nella nebbia, ho trascinato i miei passi sui tornanti di sei autostrade, mi sono calato nel fitto di sette foreste desolate, mi sono fermato sulla riva di una dozzina di oceani morti, mi sono inoltrato per diecimila miglia nella foce di un cimitero, ed è un’ardua, ardua, ardua pioggia quella che cadrà”. La struggente A Hard Rain’s A-Gonna Fall non è altro che una poesia sulla fine del tempo che, come scrive il critico Alessandro Carrera, traduttore sapiente di tutte le canzoni di Dylan, cita Cummings, il Battello Ebbro di Rimbaud, l’Urlo di Allen Ginsberg, Edgar Allan Poe e i Fiori del Male di Baudelaire. “Generalmente associata con la crisi di Cuba (seconda metà dell’ottobre 1962) e con il timore della guerra nucleare, la canzone era già stata terminata prima dello scoppio della crisi”, annota Carrera nel primo monumentale libro di testi tradotti Lyrics 1962-2001 (Feltrinelli, 2006), e Bob sta già viaggiando su strade sconosciute a chiunque. Dopo la prima esibizione a Newport del 1963, e dopo aver dato alle stampe due capolavori come Bringing It All Back Home (marzo ‘65) e Highway 61 Revisited (agosto ‘65), viene invitato dal suo padre putativo Pete Seeger nuovamente al Newport Folk Festival. Ma oltre alla chitarra acustica Bob porta con sé una band di scalmanati e soprattutto una Fender Stratocaster elettrica. E succede il finimondo, come raccontato bene nel film.


Sono tante le versioni tramandate su cosa successe veramente quella sera, ma Elijah Wald è sicuro che quella svolta elettrica abbia segnato la nascita del rock come voce di una generazione. C’è chi dice che la vecchia guardia come Seeger o Alan Lomax furono scioccati nel vedere la chitarra elettrica, c’è chi sostiene invece che fosse solo il volume distorto a fare saltare i nervi agli organizzatori. C’è chi dice che lo stesso Seeger cercasse un’ascia per tranciare i cavi dell’amplificazione e chi, invece, sostiene che volesse unicamente abbassare il volume. Il vecchio musicista probabilmente criticava la qualità del suono, non quella della musica, ma aveva sempre ritenuto la musica pop come un “narcotico, l’oppio che distoglieva il pubblico dai problemi del mondo reale, e il rock faceva parte dello stesso pubblico”. 


Il film di Mangold si ferma subito dopo il fantomatico concerto elettrico del 1965, ed è un finale coi fiocchi: il giovane Chalamet/Dylan scompare nella notte a bordo della sua Triumph e lo ritroviamo in ospedale da Woody Guthrie. E’ un cerchio che si chiude. Bob vuole ripagare il suo debito di riconoscenza verso il suo Mito da cui, in fondo, ha imparato a essere un ribelle. Sui titoli di coda del film altri applausi e altre lacrime. Anche se è solo un film.


Ma ciò che accade da quel momento al vero Dylan e alla sua famiglia, trasferitisi nella campagna vicino Woodstock a nord dello stato di New York, è davvero impressionante: scocciatori e sbandati di tutti i tipi cominciano a entrargli in casa giorno e notte in cerca di cibo ma soprattutto in cerca del Principe della Protesta, e la vita di Dylan diventa un inferno: “Il mondo della musica folk era stato come un paradiso che dovevo lasciare, così come Adamo aveva dovuto lasciare il giardino. Era troppo perfetto. Di lì a pochi anni una vera e propria bufera di merda si sarebbe scatenata. Tutto avrebbe cominciato a bruciare, reggiseni, cartoline precetto, bandiere americane, e anche i ponti alle spalle. Tutti a sognare un’eccitazione senza fine”, scrive lui nella autobiografia vedendo evidentemente il futuro, “la psiche dell’intera nazione stava per cambiare e in molti modi sarebbe stata simile alla notte dei morti viventi. La strada si stava facendo pericolosa e io non sapevo dove portava, ma la seguii ugualmente. Laggiù, più avanti, uno strano mondo stava per svelarsi, un mondo tuonante, dagli spigoli taglienti come fulmini. Molti non lo capirono e non l’avrebbero mai capito. Io ci entrai senza esitare. Stava lì spalancato. Una cosa era sicura, non solo non era retto da Dio, ma non era retto nemmeno dal diavolo”. 

  

Pochi mesi prima di Woodstock, spiazza tutti: esce “Nashville Skyline”, ballate country per cui i fan della prima ora lo accusano di un nuovo tradimento

  
Dylan cerca dunque di scomparire, scrive testi sempre più indecifrabili e a volte urla le sue canzoni per sovrastare il suono della band che lo accompagna. E quando non ce la fa più il fato ci mette lo zampino. Il 29 luglio 1966, in sella alla Triumph ha un incidente: forse un guasto, o forse un colpo di sonno, o una semplice distrazione, e finisce a terra. Immediatamente il mito prende il sopravvento e cominciano a circolare le ricostruzioni più fantasiose: era drogato, o voleva addirittura suicidarsi. Ufficialmente lui dirà di essersi rotto alcune vertebre del collo ma non risulta in nessun ospedale della zona. Qualcuno dice che durante la convalescenza si disintossica dall’eroina, senza avere ovviamente nessuna prova. “La verità era che volevo uscire da quella corsa dissennata”, scrive anni dopo nelle sue memorie,  liquidando l’evento che per i fan è il mistero dei misteri, una sorta di resurrezione sul Golgota, con poche righe: “A parte la mia famiglia non c’era niente che fosse di reale interesse per me, e vedevo le cose attraverso occhiali differenti. Anche le orribili notizie della cronaca, l’assassinio dei Kennedy, di Martin Luther King, di Malcolm X… Non li vedevo come figure di rilievo che erano state assassinate, ma come padri le cui famiglie erano state colpite”. 


Tre anni dopo, dal 15 al 17 agosto 1969, non troppo lontano da casa sua, si celebrano i tre giorni di pace, amore e musica al festival di Woodstock, ma Bob ovviamente non partecipa. Sul palco si avvicendano alcune delle star più importanti a livello internazionale davanti a un pubblico di circa 500.000 figli dei fiori, intenti a celebrare gli ideali di fratellanza e pacifismo strafatti di canne, anfetamine e Lsd (qualcuno, anche stavolta, sostiene che fosse stata la Cia a far entrare un mare di droga per distruggere il movimento dall’interno, ma chissà). L’evento, passato alla storia come mitologico anche per chi non c’era, ha rappresentato davvero un importante momento di consapevolezza dell’intera generazione che ha cantato a squarciagola la Freedom di un Richie Havens in trance, le I Shall Be Released e We Shall Overcome di Joan Baez al sesto mese di gravidanza, l’urlo black liberatorio di Sly & The Family Stone, l’inno generazionale degli Who e della loro My Generation. A rendere l’evento inequivocabilmente una faccenda politica ci pensa poi Jimi Hendrix che sale sul palco alle nove del mattino dell’ultimo giorno, causa il ritardo della notte prima: verso la fine del suo lunghissimo e fiammeggiante set sciocca tutti con un’improvvisazione dell’inno nazionale americano The Star-Spangled Banner suonato con la sua Fender Stratocaster bianca e il distorsore al massimo per mimare le bombe che cadevano in Vietnam.

  

E’ l’apoteosi, è proprio la presa di coscienza di cui aveva cantato il Menestrello di Duluth, quella di chi non può che schierarsi contro i signori della guerra. Ma Dylan, pochi mesi prima di Woodstock, spiazza tutti ancora una volta: nell’aprile dello stesso anno esce il suo nono album Nashville Skyline, dove duetta con Johnny Cash e trasforma la sua musica in ballate country per cui i fan della prima ora lo accusano di ennesimo tradimento. Ma Bob è Bob, se stesso, uno dei suoi tanti sé, e il disco è, ovviamente, formidabile. Torna addirittura a vivere nel Village a New York ma viene perseguitato dall’attivista Alan Jules Weberman, che fonda il Dylan Liberation Front con l’obiettivo di “aiutare a salvare Bob Dylan da se stesso”: rovistando nei bidoni della spazzatura sotto casa del musicista alla ricerca di indizi, pizzini segreti e documenti privati, Weberman voleva dimostrare i riferimenti all’eroina nelle sue canzoni, e costringerlo a non ignorare le sue responsabilità di portavoce politico della controcultura. Follia.


Elijah Wald descrive nel suo libro questo passaggio epocale: “Durante il periodo generalmente ricordato come ‘gli anni Sessanta’, l’epoca del Vietnam, delle contestazioni universitarie, della ‘Summer of Love’, degli hippie, della droga e dei Weathermen, Dylan fu davvero uno Zeitgeist, il fantasma di una vittima sacrificale che aveva sfidato gli anziani nel tempio del folk, era stata fustigata e condannata a trascinare la sua croce elettrica sul Golgota durante un tour di un anno (i fan di Manchester che gli avevano dato del Giuda avevano frainteso la situazione), e si era finalmente immolata perché il rock fosse redento”.
In una rarissima intervista del 2004 al programma 60 Minutes, Dylan racconta con un po’ di imbarazzo la vera storia di Blowin’ in the Wind, scritta in dieci minuti, venuta semplicemente da una sorgente magica di creatività, e afferma di non sapere più come fare a scrivere così: “L’ho fatto una volta, e ora posso fare altre cose, ma non più quella”. E quando il giornalista Ed Bradley gli chiede perché è ancora qui lui risponde di aver fatto un patto molto tempo fa. “Posso chiederti con chi?”, ribatte Bradley. “Con il Capo, sai, con il Capo comandante di questa Terra e del mondo che non possiamo vedere”, risponde Bob senza riuscire a trattenere un sorrisetto mefistofelico.


“Adesso non parli più con quel tuo tono, adesso non sei più tanto spocchiosa di doverti rimediare qualcosa da mangiare. Che effetto fa, senza un posto dove stare, come una perfetta sconosciuta, come un sasso che rotola via?”, canta in Like a Rolling Stone, la canzone rock più rivoluzionaria e importante di questo mondo e degli altri possibili. Non potremmo dunque accontentarci solo della sua bella musica?