“Dickinson”, con Hailee Steinfeld (in piedi al centro), è un racconto anacronistico con una Emily rock 

Giacomo Leopardi ed Emily Dickinson. Due poeti, cento fiction

Annamaria Guadagni

Due parallele trasfigurazioni pop. Talenti che si esprimono in modalità senza registro, si leggono e si rivisitano fra TikTok e le serie tv in un palpitante emisfero di nuova popolarità in cui si fatica a riconoscerli 

Le vite dei grandi artisti hanno i loro cliché. Anime troppo grandi per il tempo in cui vissero, spiriti ribelli, creature incomprese talvolta col cuore diviso che batte per uomini e donne, oppure con almeno una passione gay. Se aggiungiamo: vissero in segregazione per forza o per scelta, si spensero presto ma brillano per sempre, eccoci sul lussureggiante pianeta pop di Giacomo ed Emily, grandi poeti dell’Ottocento (e di tutti i tempi) tra loro assai diversi ma uniti dal comune destino di ispirare film, canzoni, fumetti, graphic novel e serie tv. Dai film di ricercato linguaggio, come “Il giovane favoloso” di Mario Martone e quelli di Terence Davies e di Madeleine Olnek su Dickinson, a Topolino e Pippo rispettivamente precettore di Giacomo e bibliotecario di Monaldo, sceneggiati da Silvia Martinoli per un album della Disney. I versi di Leopardi sono citati nelle canzoni di Guccini e di Gaber, di Renato Zero e di Vecchioni, mentre Dickinson è un personaggio nell’installazione “The dinner party” di Judy Chicago, nei racconti di Connie Willis e in “Lulù Delacroix”, la fiaba gotica di Isabella Santacroce. L’elenco è approssimato per difetto.

Leopardi e Dickinson vissero in mondi davvero diversi e lontani. Leopardi nasceva a Recanati, nello Stato pontificio, nel 1798; l’anno dopo la Rivoluzione francese avrebbe minato un edificio sociale vetusto, ormai insostenibile. Dickinson venne al mondo nel New England puritano del 1830, si nutrì dello stesso humus che alimentò il trascendentalismo di Emerson, Thoreau, Hawthorne, visse dove fiorirono capolavori come “La lettera scarlatta” e “Walden”; e dove crebbe la sua quasi coetanea narratrice popolare Louisa May Alcott, autrice di “Piccole donne”. Certo che furono entrambi poeti grandissimi, lui anche filosofo e astronomo; lei anche botanica, naturalista, teologa. Le loro pop-biografie oggi sono fiabe per hikikomori, ragazzi chiusi nelle loro stanze per sfuggire alla pressione sociale verso la competizione e il successo. Sono storie per adolescenti che sognano di vivere in grande ma passano le giornate in solitaria e le notti a viaggiare in rete. I santi poeti sono angeli custodi e, nell’immaginario contemporaneo, non stanno sulla nuvola dei maestri ma su quella dei compagni di avventura e sventura di giovani vite inquiete e ragazzi a rischio di bullismo. Protettori di non conformi (perché no?): brutti anatroccoli, creature ai primi turbamenti d’amore per un’altra irraggiungibile metà, talenti che si esprimono in modalità fuori registro. Grandi e lucenti stelle della poesia universale abitano l’immaginazione contemporanea come geni affabili e scapestrati: affacciatevi su TikTok e li troverete strapazzati, rappati, invidiati (ti odio, almeno a te fanno una serie tv!) o idolatrati con commovente passione.

E’ interessante esplorare questo emisfero palpitante di nuova popolarità, però si fatica a riconoscere il-la grande poeta. Perché i Giacomo Leopardi e le Emily Dickinson che viaggiano nel mondo iperconnesso, ammesso che lo siano stati nelle narrazioni precedenti, non sono più esattamente loro. Come in ogni mitologia, sono nati racconti apocrifi che traducono il significato delle loro vite a uso di ragazzi del secolo XXI. I loro profili sono stati aggiornati, riveduti e corretti non solo attingendo a nuove letture e più moderne biografie che hanno riempito vuoti e silenzi ipocriti, ma sono stati anche abbondantemente arricchiti con l’immaginazione, romanzati e adatti al linguaggio del musical, del cinema, della serie televisiva, del reel da postare sui social.

“Dickinson”, la serie di Alena Smith prodotta da Apple tv+ in tre stagioni (2019-2021) è quasi un fantasy e una commedia nera in costume dove Emily è molto rock, si scontra col padre, corteggia la morte come una dark punk, fuma e – per andare a sentire conferenze e lezioni universitarie precluse alle ragazze – veste da uomo come George Sand, vive appassionate notti d’amore e di sesso con la cognata Sue, sfida il mondo per affermarsi come poeta. Mentre gli avvenimenti della vita relativamente breve di Dickinson furono pochissimi e vissuti con intensità bruciante ma tutta interiore, fatti assai pochi. La sua sfrenata libertà era in una stanza, dove viveva nel futuro chiudendo la porta e girando la chiave per lasciarsi dietro la meschinità del mondo. Lasciò un contesissimo baule con circa 1.800 poesie, in vita ne pubblicò una decina. Non scalpitava per affermarsi. “Io sono Nessuno. Vita e poesia di Emily Dickinson” è non a caso il titolo della biografia più recente, pubblicata da Elliot e scritta dal poeta Silvio Raffo, di cui rubo qui la traduzione di versi inequivocabili: “Io sono Nessuno – e tu chi sei? / Sei Nessuno anche tu? / Allora siamo in due – non dirlo, / potrebbero spargere la voce! / Com’è pesante essere Qualcuno! / Così volgare – come una rana / che gracida il tuo nome tutto Giugno / ad un Pantano in estasi per lei”.  

La serie “Dickinson”, che è stata un successo globale, è un racconto anacronistico come “Bridgerton” di Chris Van Dusen, con l’aristocrazia britannica dell’età della Reggenza che parla come nei romanzi di Jane Austen ma è incarnata da attori con corpi e facce della gente dell’Impero: africani, indiani, caraibici… Non il passato com’era, ma come avrebbe potuto essere se… Con la serie “Dickinson” circolavano (e si trovano ancora in rete) video-questionari con le scene topiche e la domanda: vero o falso? Qualcosa di vero, molto di inventato. Del resto, a contraffare l’immagine di Emily si cominciò molto presto; solo che allora – dopo la sua morte – il camuffamento era di segno opposto, fece di lei un fake vittoriano per rendere commestibile, accettabile, la sua scandalosa modernità. I suoi versi furono aggiustati secondo il gusto dell’epoca, se ne accentuò l’immagine claustrale – una vergine sempre vestita di bianco – per nascondere le sue estasi: “Notti selvagge – Notti selvagge! / Fossi io con te / notti selvagge sarebbero la nostra passione”, versi qui citati nella traduzione a cui sono più affezionata, quella di Barbara Lanati; devo a lei la scoperta di Dickinson a vent’anni.

Emily viveva e scriveva di notte, ma di che cosa erano fatte, come nascevano le sue estasi così sensualmente evocative? Non lo sappiamo. Nessuna delle sue biografie, incluse quella di Marisa Bulgheroni ripubblicata due anni fa dal Saggiatore, né quella di Lyndall Gordon, disponibile in italiano da Fazi, possono rispondere a questa domanda. Gordon avanza l’ipotesi che le metafore incandescenti, la segregazione, gli abiti bianchi fossero strettamente legati alla malattia. Dickinson soffriva di epilessia, si curava seguendo regole e dettami dell’epoca, durante gli attacchi – nelle sue cadute – aveva visioni che la investivano come eruzioni vulcaniche. Certo amava la cognata Sue, le dedicò quasi trecento poesie, era la sua musa – la sua Beatrice, dice lei – e le scriveva lettere appassionate: “Susie verrai davvero a casa sabato prossimo e sarai di nuovo mia e mi bacerai come facevi?”. Ma siamo noi a dare un nome, a esplicitare il significato di quel linguaggio amoroso che al tempo abitava amicizie femminili e maschili senza dirsi omoerotico. Un po’ quello che fu anche tra Leopardi e Antonio Ranieri, che Giacomo chiamava “anima mia”, dicendosi certo che sarebbero vissuti “l’uno per l’altro, o almeno io per te, sola e mia ultima speranza”. Stando alla celebre e ormai quasi introvabile biografia di Leopardi scritta da Pietro Citati, si esprimeva così l’amore platonico di tante amicizie del cuore ottocentesche.

Se Dickinson è stata subito censurata ed edulcorata, a Leopardi sono toccati l’addomesticamento scolastico del pessimismo cosmico e la fenomenologia della gobba. Questo secolo l’ha poi riscoperto gigante della filosofia, erede della tradizione umanistica che passa per Dante e Machiavelli; maestro del pensiero critico: non uno che vede solo nero, ma uno che vuol mettersi di fronte alla realtà com’è, anche quando si presenta feroce; il contrario del pensiero adattivo che lavora per renderla accettabile. La verità è che non finiremo mai di aggiornare il punto di vista su Leopardi e su Dickinson, di estrarre dalla loro grandezza quello che prima appariva implicito. Anche sul pianeta pop, dove tutto è semplificato, l’evoluzione degli allestimenti sarà continua e via via somigliante al comune sentire dei tempi. La Dickinson di Alena Smith è sfacciatamente apocrifa e divertente proprio per questo, è una fiaba moderna. Il Leopardi senza gobba di Sergio Rubini, con il volto di Leonardo Maltese e la voce stridente del ragazzo mal cresciuto, è un’operazione dopo tutto abbastanza timida. Questo Giacomo che da bambino è Pinocchio, da ragazzo un contestatore e poi Cyrano con Fanny Targioni Tozzetti (sue le belle parole, ma l’esperienza amorosa e le fattezze seducenti sono di Antonio Ranieri), troppo geniale per essere capito, per nulla furbo da accomodarsi in società e infine platealmente omosessuale, in fondo non è pop. “Leopardi. Il poeta dell’infinito” è un melò pieno di citazioni che fatica a volare. Somiglia al Leopardi raccontato da Antonio Ranieri.

Patriota antiborbonico, e poi deputato e senatore del Regno d’Italia, dopo la morte dell’amico, Ranieri scrisse un memoir per dimostrare la sua devozione fraterna e per difendersi dall’accusa di aver approfittato del poeta. Le memorie di Ranieri, “Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi”, che raccontano la fuga a Firenze e poi l’approdo a Napoli, dove Leopardi morì nel 1837, furono scritte per contrastare la (fondata) maldicenza secondo la quale lui e la sorella Paolina – dopo tutto gli unici a prendersi amorevolmente cura di Giacomo – si erano fatti mantenere con il sussidio che il conte Monaldo aveva assegnato al figlio. Leopardi e Dickinson godono di una buona esposizione libraria. Fuori dall’editoria scolastica, oltre alle innumerevoli edizioni di poesie e prose, su Leopardi si pubblicano in media una decina di saggi all’anno, tra novità e nuove edizioni dei testi più richiesti, ultimamente orientati soprattutto dalla riscoperta filosofica. Le poesie di Dickinson – dalla nuova edizione del Meridiano curato da Marisa Bulgheroni ai piccoli grandi libri di Garzanti, cento pagine a meno di sei euro – hanno vita prospera. Ci sono continue nuove traduzioni: tra le più recenti quelle di Silvia Bre, Nadia Fusini, Vivian Lamarque. Negli ultimi sei anni l’autrice Dickinson, tra volumetto tascabile con testo originale a fronte e due piccoli libri di poesie d’amore, da Garzanti ha venduto trentamila copie. In un mondo dove i classici non si sentono tanto bene, non è banale.

E’ uscito a fine gennaio, in elegante edizione de La Tartaruga, “La stanza di Emily” di Benedetta Centovalli, da mettere in tasca per andare ad Amherst, Massachusetts, o se vi piacerebbe ma non potete farlo o se non conoscete ancora Dickinson e cercate un raffinato breviario. E’ un reportage narrativo e un personal essay arricchito di fotografie, di alcune enigmatiche lettere, di qualche poesia in traduzione preziosa (Amelia Rosselli, Mario Luzi). E’ l’esplorazione del mistero di “un’acrobata del tempo”, Emily vi compare come qualcuno che “non appartiene alla sua epoca, sprofondata com’è dentro il senso ultimo dell’esistere”. Da lì parla direttamente a noi e a quelli che verranno. Aveva intorno persone mediocri e buoni affetti (la sorella, la cognata) – argomenta Centovalli – si fabbricò maschere per vivere indisturbata. Dietro una di quelle non la riconosceremmo neppure noi che crediamo di comprenderla, convinta com’era che la bellezza non si può spiegare e che non ha bisogno di essere capita.

“Emily Dickinson non aveva pietà di sé, né nostalgia, né malinconia, né desiderio di un destino diverso”, scrive Centovalli. Coltivava fiori e faceva il pane con trasporto mistico, viveva “nella luce del proprio fuoco”, come scrisse l’amata cognata Sue stendendone il necrologio. Ebbe, questi invece sono versi suoi, “Una quieta – Vulcanica – Vita / Che brillava nella notte”. Nel 1862, quando Sir Thomas Higginson, che sull’Atlantic Monthly aveva incitato i giovani talenti a farsi avanti, la scoraggiò dal pubblicare, gli rispose ironica: “Mi viene da ridere quando lei mi consiglia di differire la pubblicazione – essendo questa estranea al mio pensiero come il firmamento a un pesce”. Dobbiamo crederle, davvero non le importava o si ritraeva per non farsi ferire? Questo viaggio intorno alla stanza di Emily, scritto da una signora che ha fatto l’editor e che per mestiere ha scelto l’ombra, ruota molto intorno a questa domanda. Ci mostra Dickinson come “una creatura della soglia”: non poteva infrangere il muro dei pregiudizi e dei divieti, gli oppose “un’intima resistenza”, coltivando “un’inscalfibile auto-considerazione del proprio lavoro artistico”.  

Le biografie si raccontano sperando di svelare misteri, la letteratura invece li custodisce. Anche perché sovente – come si legge in questo piccolo libro di Benedetta Centovalli a proposito di Emily – la vita può nascondere motivazioni esistenziali, ma non può spiegare l’opera di un grande artista, semmai si piega e a volte si schianta per accoglierla. Sospetto che questo valga anche per Giacomo.

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