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Prego Führer, ci dica. Giornali stranieri al cospetto di Hitler
I giornalisti della stampa estera inginocchiata dinanzi al leader nazista. Le interviste raccolte da Lutz Hachmeister, per capire come manipolava l’informazione per propagandare le sue idee e vendere bugie
“La stampa italiana con me si è sempre comportata in modo leale e corretto”, disse al termine dell’intervista Adolf Hitler, congedandosi da Pietro Solari, inviato della Gazzetta del Popolo e amico personale di Joseph Goebbels. Era il 6 dicembre 1931 ed era la seconda volta nell’arco di poco più di un anno che Solari, giornalista molto gradito al regime di Mussolini, si ritrovava al cospetto del Führer del nazismo, non ancora arrivato al potere.
Lo aveva già incontrato nel settembre dell’anno precedente, interrompendo un lungo intervallo. Era infatti dal 1923, alla vigilia del putsch di Monaco, il fallito golpe che gli era costato un anno di carcere, che il leader nazionalsocialista non si era più espresso su un quotidiano italiano. Ma ora era tutto cambiato. La lunga traversata del nazismo nel caos violento della Repubblica di Weimar si era conclusa. L’intervista era stata concessa sull’onda della spettacolare avanzata della Nsdap, il partito hitleriano, nelle elezioni politiche dell’autunno 1930, dove aveva ottenuto più del 18 per cento dei voti, portando al Reichstag ben 107 deputati.
Nella prima delle due interviste a Solari, che dopo il 1945 avrebbe steso un furbo velo sui suoi trascorsi fascisti e sarebbe diventato corrispondente da Berlino per il Corriere della Sera, Hitler celebrava l’Italia fascista come “grande Nazione” che “ha strappato alla Francia il primato tra le nazioni latine”. E, considerando i suoi “47 milioni di cittadini sparsi nel mondo in rapporto al suo spazio”, ne sottolineava “le molte affinità con la Germania”. Ancora più significativo, un passaggio del secondo colloquio, dove Hitler dimostrava chiaramente di aver “imparato” da Mussolini quanto a strategia e tattica nella conquista del potere: “Il nazionalsocialismo tedesco è costretto a combattere il centro cattolico esattamente come ha fatto Mussolini per liberarsi dai popolari. Noi non combattiamo la Chiesa cattolica. Non siamo religiosi, siamo un movimento politico. E se il cattolicesimo si identifica politicamente con il centro, non è colpa nostra”.
Ma Hitler fu ancora più esplicito con il giornalista italiano, del quale all’evidenza si fidava, tradendo le sue vere intenzioni: “Alle prossime elezioni per il Parlamento della Prussia, spazzeremo via socialdemocratici e centristi e ci impossesseremo del potere”. Come avrebbe rivelato anni dopo Solari, il leader nazista gli chiese tuttavia di non pubblicare questa risposta: “Gli diedi la mia parola. E il capo dei nazionalsocialisti mi congedò con un saluto romano e una calorosa stretta di mano”.
Nel corso della sua carriera, Adolf Hitler ha concesso più di cento interviste alla stampa estera. Sin dai suoi esordi in politica, i giornalisti di tutto il mondo e in particolare quelli americani furono affascinati dalla figura del capo nazista, che soprattutto dopo il tentativo di colpo di Stato del 1923 divenne il loro primo oggetto del desiderio. Ancora di più questo fu vero dopo il 1930, l’anno della svolta.
Hitler da parte sua non sopportava i giornalisti e le loro domande: non quelli del paese fascista alleato, l’Italia, e men che meno gli inviati dei paesi capitalisti democratici, che lui considerava manovrati dal Weltjudentum, l’ebraismo mondiale. Non tollerava il concetto stesso di dialogo che è proprio del format, preferendo lunghi e ininterrotti monologhi. Ma il leader nazista sapeva anche di aver bisogno dei giornali stranieri, per migliorare la sua immagine, propagandare le sue idee, non ultimo vendere spudorate bugie sui suoi reali obiettivi, sia prima di arrivare al potere che dopo averlo conquistato. Di più, fino al 1933, l’anno della sua nomina a cancelliere, per farsi intervistare egli pretendeva anche un sostanzioso onorario, che andava direttamente nelle casse della Nsdap, in permanente bisogno di fondi.
E’ merito di Lutz Hachmeister, giornalista e storico tedesco dei mass media, se le interviste di Hitler ai giornali esteri vengono ora raccolte in un libro appena uscito in Germania per i tipi di Kiepenheuer & Witsch. In Hitler’s Interviews. Der Diktator und die Journalisten, l’autore, purtroppo scomparso nell’agosto scorso, racconta le storie di questi incontri, valuta il loro contenuto in riferimento alle strategie mediatiche del dittatore e analizza i diversi gradi di complicità tra gli uomini della propaganda nazista e i giornalisti.
Le oltre cento interviste di Hitler si spalmano sui tre periodi della sua vicenda: quelle dalle origini al fallito putsch del 1923, quando egli finisce nella prigione del Landsberg; quelle dal 1930 al 1933, quando il Partito nazista entra fra i protagonisti della lotta per il potere dopo il lungo disinteresse al personaggio della seconda metà degli anni Venti; infine, quelle più rare da cancelliere del Terzo Reich e Führer di tutti i tedeschi. Nella divisione per paesi, 60 interviste vennero concesse a giornalisti angloamericani, 17 a inviati italiani, 8 a reporter francesi e il resto a iberici, ungheresi, polacchi, danesi, svedesi, giapponesi ed egiziani. A organizzarle e gestirle era Ernst Sedgwick Hanfstaengl, detto Putzi, storico responsabile della Nsdap per la stampa estera, che aveva frequentato l’Università di Oxford e conosceva personalmente tanti giornalisti inglesi e americani.
“Per inviati e corrispondenti stranieri – scrive Hachmeister – Hitler era un trofeo da portare alle loro testate, lo scoop era l’intervista per sé, indipendentemente dalla struttura e dai contenuti. Anche per questo, la maggior parte di loro era mal preparata, nel senso biografico, strategico e politico. Molti lo lasciavano semplicemente parlare, con lo scopo di avere il prima possibile un titolo, con Hitler fissato in ruoli stereotipati sempre diversi: ora era l’ex caporale boemo, ora il Mussolini della Baviera, ora il clown alla Chaplin, ora il pittore di case austriaco dall’improbabile biografia. Ma pochi riconobbero il suo sinistro potenziale”. Molte delle interviste si svolgevano nel suo rifugio sull’Obersalzberg, il luogo prediletto di Hitler sulle Alpi bavaresi, che dopo la presa del potere sarebbe diventato una vera e propria fortezza: il Nido dell’aquila.
La prima intervista documentata di Hitler con un italiano, forse anche la più celebre alla luce della successiva carriera del giornalista, fu quella del marzo 1923 con Giulio De Benedetti, allora giovane inviato della Gazzetta del Popolo di Torino. Secondo quanto avrebbe raccontato il futuro direttore della Stampa nelle sue memorie, si trattò di un incontro casuale nella redazione di Monaco del Völkischen Beobachters, l’organo nazista, dove il capo si sarebbe appalesato improvvisamente alla testa di “una banda di esaltati, volti da neurotici o cocainomani, che mi ricordavano un po’ i ‘cekisti’ moscoviti”. De Benedetti, che era ebreo, ricostruì il colloquio come storia, cioè senza domande e risposte. Visto da vicino Hitler dava un’impressione banale: il suo volto era “ordinario e non interessante”, la “sua figura tozza”, la sua eleganza “falsa e dozzinale”. Con lui Hitler parlò a lungo delle somiglianze tra il suo programma e quello di Mussolini, ma si disse deluso che il duce, da meno di un anno presidente del Consiglio, non avesse ancora riconosciuto il pericolo centrale costituito dall’ebraismo internazionale. L’articolo di De Benedetti è spesso ironico e divertito dalle sparate di Hitler, la conclusione senz’appello: “Non mi pare affatto un pericoloso dittatore”.
Ben diverso il tono dell’intervista firmata da Luigi Negrelli e apparsa sul Corriere Italiano il 16 ottobre dello stesso anno, sotto il titolo “La giovane Germania prepara la riscossa”. Negrelli, fascista dogmatico, amico personale di Hermann Göring e futuro portavoce di Mussolini a Salò, strappò a Hitler un messaggio importante: per il Führer, la questione dell’Alto Adige non doveva essere motivo di discordia tra Italia e Germania. “Non mi lascio trascinare dalla stampa viennese in una campagna contro l’Italia su questo tema. Ci sono 17 milioni di tedeschi fuori dai confini e dobbiamo preoccuparci dei 180 mila che sono sotto l’Italia?”, disse il capo nazista. L’ultima intervista prima del putsch d’autunno e della successiva incarcerazione fu quella data a Gustavo Traglia, notorio irredentista e inviato di Epoca, dove Hitler manifestò di nuovo la sua ammirazione per “l’onorato Mussolini”.
Bisognerà aspettare il 1930 per rivedere Hitler intervistato da un quotidiano italiano. Come si è detto, fu un doppio scoop per Pietro Solari, della Gazzetta del Popolo. In entrambi i colloqui, il leader nazionalsocialista affronta il tema delle “riparazioni”, che lui però definisce “tributi”, imposti alla Germania dal Trattato di Versailles, che la Nsdap combatte e di cui chiede la revisione: “Sono 740 miliardi di marchi – disse Hitler –. Una somma assurda e insensata, dovremmo arrivare fino al 1988 per saldare quello che rimane”. In realtà, la Germania ha finito di pagare i debiti della Grande Guerra nel 2010. Tra le due interviste a Solari, nella primavera 1931, uscirono un’intervista a Bruno Calzinga su La Tribuna e la prima delle due concesse da Hitler a Gino Cucchetti per il Popolo d’Italia, l’organo fascista, in cui il futuro dittatore parlò di “un’alleanza anglo-italo-tedesca”, che da sola avrebbe potuto “salvare la civiltà europea dalla doppia tenaglia della Francia resa meticcia dal sangue nero da un lato e dell’incubo del bolscevismo asiatico dall’altro”. Cucchetti pubblicherà la seconda intervista in novembre.
“Conversazione con Adolf Hitler nella casa di Federico Nietzsche”, fu lo strano titolo con cui La Stampa pubblicò il 31 gennaio 1932 un’insolita intervista a Hitler di Italo Zingarelli, figlio di Nicola, condotta appunto a Weimar, nella casa natale del filosofo. In febbraio toccò ad Alfredo Stendardo, per il Giornale d’Italia, e subito dopo al fascistissimo Filippo Bojano, intimo di Mussolini che aveva conosciuto tramite Gabriele D’Annunzio e per lunghi anni corrispondente da Berlino del Popolo d’Italia e dell’Agenzia Stefani. Il quale però uscì piuttosto deluso dall’incontro, perché il Führer non disse nulla di sostanziale o degno di un titolo decente. Bojano rimase nella capitale tedesca fino al 1940 ed ebbe anche un altro breve incontro con Hitler nel 1938 a Vienna durante l’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Ma a partire dal 1944 egli fece il salto della quaglia, descrivendosi come un perseguitato del regime nazista, minacciato da Goebbels e Ribbentrop. Operazione all’evidenza riuscita, dal momento che negli anni Cinquanta Bojano divenne caporedattore alla Rai. Ancora nel 1932, uscì su Il Tevere un’intervista con il capo nazista di Remo Renato Petitto: “Come il Duce vuole essere il restauratore della razza italiana, così Hitler vuole essere quello della razza germanica”. “E’ chiaro”, scrisse Petitto, “che le camicie brune hanno il potere e i mezzi per fare una marcia su Berlino. Perché non lo hanno fatto? E cosa vogliono raggiungere con le elezioni di novembre? E’ un segreto”.
Anche il gerarca Carlo Scorza, che sarebbe stato l’ultimo segretario del Partito fascista, ebbe un colloquio con Hitler nel 1932, il cui resoconto finì l’anno successivo nella pubblicazione “Fascismo. Idea Imperiale” dove spiegò che il Führer vedeva “un blocco unitario tra Germania e Italia, fatto di 110 milioni di persone con virtù comuni come salute morale, disponibilità al sacrificio e forza fisica”.
Ma dopo la nomina a Reichskanzler, di interviste di Hitler con la stampa italiana non ne apparvero più. A parte il breve incontro di Bojano a Vienna. Secondo Hachmeister, il regime fascista “non vedeva più di buon grado una valorizzazione del Führer sui media della penisola”. Mentre agli occhi di Berlino la presenza di Hitler sui giornali italiani aveva perso rilevanza strategica: il Führer non si considerava più l’allievo del maestro Mussolini, lo aveva superato. Nel libro di Hachmeister, rigorosamente ricercato e documentato, non c’è invece traccia della presunta intervista a Hitler che Indro Montanelli rivendicò di aver fatto il 1° settembre 1939, giorno d’inizio della Seconda guerra mondiale. Montanelli raccontava di averlo incontrato per caso (il Führer sarebbe stato a bordo di un blindato) alla frontiera con la Polonia e di essere stato subito investito da un suo lunghissimo sproloquio.
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Mitologia del buon tempo antico
Requiem con lode per le piccole librerie, ma niente sensi di colpa se le tradiamo
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