Ottant'anni di tv, politica e umorismo specchiati nelle metamorfosi di un clown

Pubblichiamo un estratto da “Joker scatentato. Il lato oscuro della comicità”, il nuovo saggio di Guido Vitiello (Gramma Feltrinelli, 176 pp., 17 euro), da oggi disponibile in tutte le librerie fisiche e digitali. Vitiello è autore su queste pagine della rubrica quotidiana “Il bi e il ba”.

Pubblichiamo un estratto da “Joker scatentato. Il lato oscuro della comicità”, il nuovo saggio di Guido Vitiello (Gramma Feltrinelli, 176 pp., 17 euro), da oggi disponibile in tutte le librerie fisiche e digitali. Vitiello è autore su queste pagine della rubrica quotidiana “Il bi e il ba”.

 


 

Quando Joker entra in scena, all’inizio della Seconda guerra mondiale, è uno dei tanti gangster dai modi spicci e dalla mascella squadrata. Se il suo costume è troppo eccentrico per assimilarlo ai comuni ceffi dell’hard boiled, la sua indole istrionesca e ridanciana è comunque messa al servizio della violenza delinquenziale. Ma al volgere del decennio, stanco delle conquiste meschine da criminale ordinario – ha ormai tutto l’oro, l’argento e i gioielli che può desiderare – si dedica alla sua segreta aspirazione: vuole diventare il più grande clown del mondo, sbaragliare i comici dilettanti che vede spadroneggiare in televisione e scrivere un libro eccelso sull’arte della commedia (tutto questo accade nella storia a fumetti A Hairpin, a Hoe, a Hacksaw, a Hole in the Ground, del 1949). Sono gli anni in cui Joker comincia ad assumere piena coscienza della sua maschera comica, e riceve per così dire la sua investitura. In una storia del 1951, The Joker’s Crime Costumes!, Joker sfoggia uno dopo l’altro costumi presi dal guardaroba della tradizione comica – Falstaff, il signor Pickwick di Dickens, lo yankee del Connecticut di Mark Twain, il Simple Simon delle filastrocche inglesi. Ora l’ordine delle sue priorità è ribaltato: è la violenza – una violenza non meno brutale che negli esordi – a esser messa al servizio della risata. 

 

Ma presto Joker è costretto a cambiare registro. Il moral panic appiccato nel 1954 dal libro dello psichiatra Fredric Wertham, Seduction of the Innocent, che incolpava i fumetti di corrompere le menti dei giovani americani, segna l’avvio della cosiddetta Silver Age, posta sotto la tutela di un organo di autocensura, il Comics Code Authority. I fumetti si impongono di diventare meno cupi e violenti. Ma non sono certo solo i supereroi a ingentilirsi. Tutta la cultura popolare americana di quegli anni, dominata ormai dalla televisione e dai suoi generi, fa del suo meglio per addomesticare Joker, per fare cioè del divertimento un luogo di armonizzazione dei conflitti. Come ha suggerito il critico Peter Biskind, il “centro vitale” teorizzato dal politologo Arthur Schlesinger nel 1949 come rimedio alla polarizzazione della Guerra fredda diventa una stella polare anche per la filosofia dell’intrattenimento. (…) Joker fiuta l’aria e ne tira le conseguenze. Le sue incursioni sulle pagine di “Batman” si fanno sempre più rade e sempre meno cruente, finché un bel giorno, nel 1964, decide di eclissarsi del tutto dai fumetti. Farà capolino due anni dopo in televisione, ma sarà quasi irriconoscibile: il Joker di Cesar Romero nei telefilm di “Batman” sul network Abc è un innocuo burlone deliziosamente camp. Si diverte a dare la scossa elettrica con una stretta di mano o a spruzzare gas soporiferi dal suo fiore all’occhiello. Niente sangue e umor nero: Joker è incatenato. 

 

Certo, sulla strada della Storia possono rotolare ostacoli di ogni genere – le rivolte dei campus, le tensioni razziali, le lotte femministe, la sciagurosa impresa militare del Vietnam – che rendono più ardua la tenuta di questa filosofia accomodante dell’amusement come strumento di pacificazione. (…) Il tempo è di nuovo propizio per il nostro eroe, che può finalmente venir fuori dal suo confinamento volontario. Joker ritorna sulle pagine di “Batman” nel 1973, in pieno Vietnam. Sulla copertina ha l’aria di un reduce allucinato e incattivito, il volto deformato dalle ombre, mentre lancia una risata terrificante: Look out, Gotham! The Joker’s back in town! Da qui in poi, almeno per la nicchia dei lettori di fumetti, la sua carriera di sociopatico selvaggio potrà proseguire indisturbata. Presso il grande pubblico, invece, la grande svolta cadrà nel 1989, l’anno in cui Jack Nicholson inaugura la seconda giovinezza di Joker nel Batman di Tim Burton. 

 

E’ la fine di un decennio, gli anni ottanta, stordito più di ogni altro dallo stupefacente sociale dell’intrattenimento. La televisione dell’epoca reaganiana sembra aver recuperato il suo potere euforizzante e consensuale – o forse è solo un’illusione, un sogno vivido e ingannatore accompagnato dalla ninna nanna delle risate registrate. Nel 1985 il critico culturale Neil Postman pubblica un pamphlet destinato a una lunga fortuna, Amusing Ourselves to Death, per avvertire gli americani che di un’overdose di divertimento si può anche morire. E questo, nessuno meglio di Joker lo sa. Tim Burton sceglie di farne un incrocio tra un imperatore tardoromano patrocinatore dei ludi circensi e un mock king carnevalesco. Il nuovo Joker inocula il suo gas esilarante e mortifero nei prodotti in vendita nei supermercati. Stampa il suo sorriso su tutti i volti televisivi, perfino sui conduttori dei notiziari. Promette fiumi di dollari e di risate agli abitanti di Gotham, mentre attraversa le strade della città su un carro carnevalesco sormontato da un pallone gigante, simile a quelli che si vedono nella parata dei magazzini Macy’s a New York; ma il pallone è anch’esso gonfio di gas Smylex, e al culmine del carnevale consumistico offerto ai sudditi Joker ha in programma, letteralmente, di divertirli da morire. 

 

Il 1989 è anche la vigilia del decennio in cui la società umoristica s’illude di poter risplendere in tutti gli angoli del mondo, venuta meno la massa d’ombra del blocco sovietico. Nessuno si accorge che quello zenit è un cattivo presagio, e che il regno del divertimento si avvia a sfumare in un tramonto dai colori lividi, viola come l’abito di Joker. (…) Non è un caso che Joker cominci proprio in quegli anni a spodestare, per la sua presa sullo spirito del tempo, il proprio tetro e notturno antagonista. 

 

Joker è ormai fuori controllo. Torna a farsi vivo nel 2008, nel Cavaliere oscuro di Nolan, nelle vesti di un Erostrato nichilista con cui è impossibile negoziare. L’ottimismo degli anni novanta è un ricordo sbiadito. La Storia, che sembrava doversi assestare a lungo sotto l’Impero mondiale del divertimento, si è rimessa in moto a Manhattan, senza preavviso, la mattina dell’11 settembre 2001. Che ci fosse lo zampino del nostro antieroe dietro il practical joke del World Trade Center? Di certo, il nuovo Joker ha un solo desiderio, “vedere il mondo che brucia”. Usa ancora i mass media, come è sua tradizione, ma li usa alla maniera ricattatoria di un terrorista. Gli squarci agli angoli della bocca che ne disegnano il ghigno sbilenco sono la sua risposta parodistica e autoinflitta al buonumore coatto della società del divertimento. Nessuna conciliazione comica è più possibile. Il “centro vitale” è crollato, si è esaurita la spinta propulsiva della televisione generalista e universalista, che dopo la segmentazione della cable tv si metastatizza ormai nelle mille terminazioni della rete. Ed è tra le macerie di questa catastrofe che entra in scena l’ultimo Joker. 

 

E’ uno stand-up fallimentare, il Joker di Joaquin Phoenix, che sembra sbucato da Comedians di Trevor Griffiths. Non è in grado di raffinare la sua rabbia grezza e ribollente in umorismo, neppure di colarla negli stampi della comicità più grossolana. Possiede solo una risata disarticolata, grottesca, a malapena distinguibile dall’urlo o dal pianto, che non sa o non vuole accordare sul ritmo delle risate collettive. Proprio per i suoi goffi infortuni come comico lo invitano in un talk show serale – l’altro grande genere televisivo, insieme alla sitcom, che fin dal Johnny Carson Show degli anni cinquanta ha offerto un luogo dove stemperare le discordie nella chiacchiera – e nei talk show, come si sa, è tutta questione di saper stare al mondo, di padroneggiare il bon ton della conversazione beneducata, ravvivata qua e là da sprazzi di un umorismo tenue e ciarliero. Ma quando Joker si accomoda sulla poltrona, capiamo subito che è un alieno: ride fuori contesto, parla fuori tono, tace fuori tempo. Il conduttore Murray Franklin, interpretato da Robert De Niro, tenta ripetutamente di rimettere lo show in carreggiata, ma non c’è verso. Joker sa bene che lo hanno invitato per umiliarlo in pubblico. E’ un Tersite in mezzo agli sghignazzi dei capi achei, e vuole rivelare a tutti la violenza che si fa velo di quell’umorismo bonario e condiscendente. Ma non avendo l’arte di trasformare la sua frustrazione in estro comico, la traduce direttamente in un colpo di pistola. 

 

L’attentato mette fine alla pax televisiva del secondo dopoguerra, soppiantata ormai dalle bande identitarie della rete, che ridono le une contro le altre in una faida infinita, e che hanno fatto della comicità uno dei fronti più sanguinosi delle culture wars. Non sappiamo cosa verrà dopo, ma forse questa è l’occasione per rivisitare ciò che è stato prima.

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