facce dispari

Sergio Bernal, “Re” del flamenco: “Il sogno di chi danza è essere indimenticabile”

Francesco Palmieri

Si allena da quando aveva 5 anni, "ma non mi è mai pesata la disciplina". La cultura spagnola e mediterranea, il rapporto con Madrid e il talento che non basta se non è supportato dal duro lavoro. Intervista

Sta tutto nel duende, l’esoterico vocabolo spagnolo che si traduce bene solo con parafrasi. Cosa non è lo spiegò Federico García Lorca: non è un angelo, non una musa né il diavolo stesso. Per descriverlo ricorse a un tedesco, citando Goethe a proposito di Paganini: duende è il “potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”. Il duende, aggiunse il poeta andaluso, non viene da fuori ma “bisogna risvegliarlo nelle più recondite stanze del sangue”. Soprattutto se sei un artista di flamenco, “nessuna emozione è possibile senza l’arrivo del duende”: quando non c’è, l’arte è un inganno che sarà scoperto. Di duende abbonda Sergio Bernal, trentacinque anni, madrileno, danzatore e coreografo noto alle platee mondiali come “il Re del flamenco”. Si è appena esibito in Belgio e in Francia e si riaffaccerà in Italia con la sua compagnia il 22 e 23 febbraio per Danzainfiera a Firenze, prima di intraprendere una tournée prodotta da Daniele Cipriani Entertainment, che dal 28 di questo mese a Trieste al 29 marzo a Brescia lo porterà in nove città con due spettacoli: “Una Noche con Sergio Bernal” e “SeR”, scritti assieme a Ricardo Cue.

Come ha messo d’accordo flamenco e danza classica? Bailaor o ballerino?

Cominciai a cinque anni alla scuola di flamenco dove mi portò mia madre e a undici mi iscrissero al Conservatorio per intraprendere la classica. Neanche sapevo cosa fosse, ma più studiavo più capivo quanto fosse importante. La mia mescolanza è come la conoscenza di più lingue: un arricchimento che apre più porte e consente maggiore libertà. Nel flamenco attingi la forza dentro il corpo, nella danza classica richiami emozioni più eteree.

Parla un ottimo italiano.

Non come vorrei. Frequenterò una scuola per migliorarlo. Sono un perfezionista.

Non le pesa la disciplina?  Sono trent’anni che s’allena

Non mi è mai pesata. Da ragazzo ho rinunciato a qualche divertimento con gli amici, ma mi piaceva talmente diventare un ballerino famoso che non ne ho sofferto. Volevo realizzare la storia che sognavo: formare una compagnia, girare il mondo. Oggi sono aumentate le responsabilità e le preoccupazioni, ma assieme alla passione di danzare. Mi disciplino con naturalezza.

Per eccellere nel flamenco bisogna essere spagnoli: è vero o è un pregiudizio?

Più che la nascita è importante conoscere un po’ di cultura spagnola, il resto lo fa il Mediterraneo: siamo affacciati sullo stesso mare da finestre differenti e se mettiamo la testa fuori possiamo salutare gli amici. Tra un italiano e uno spagnolo certe emozioni si condividono facilmente.

Il flamenco attinge anche alle tradizioni della corrida.

Moltissimo. È una forma d’arte dove ti confronti con il rito e con la verità, però mi fa star male vedere il toro morire nell’arena.

Quando ha conosciuto il suo duende?

La prima volta che salii sul palcoscenico, ero un bambino, capii che quella sarebbe stata la mia forma di comunicazione. Quando osservi i visi di chi siede là davanti, e ha investito tempo e soldi per vederti, senti un’energia che parte da te ma deve inondare la platea. Chiunque possieda la tecnica può muoversi danzando, ma l’arte è un’altra cosa: se hai duende chi ti guarda prova una emozione che non dimenticherà finito lo spettacolo e qualche volta non dimenticherà mai.

Lei con chi l’ha provata?

Una notte che ero a casa, guardando il video di Michael Jackson “Man In The Mirror”, cominciai a piangere. Lui era morto da anni ma mi comunicava un’emozione viva. Provo lo stesso con Nureyev: sarà vivo ogni volta che qualcuno lo rivedrà danzare. L’arte che realizza questo è un modo per non morire mai.

Se non avesse fatto il ballerino?

L’architetto. Dovunque mi trovi amo scoprire palazzi storici e monumenti. Se avrò una prossima vita ho già scelto il lavoro.

Quanto si sente madrileno?

Totalmente. Gli interventi degli ultimi anni hanno reso ancora più bella una capitale che abbraccia chiunque venga, dove all’una di notte si può passeggiare in piena sicurezza e trovare ristoranti con le cucine aperte.

In che misura conta il talento innato?

La penso come lo zio del tennista Rafa Nadal, che fu il suo allenatore: il talento conta il venti per cento, l’ottanta per cento è fatica. Se hai una predisposizione enorme ma perdi il tempo a letto non servirà a niente. Forse andrà bene per un informatico, ma chi lavora con il corpo ha bisogno di tantissima pratica disciplinata.

Sua madre iscrisse a scuola di flamenco lei e il suo gemello, ma l’esito fu molto diverso.

Lui è diventato agente immobiliare. Ballare non gli interessava proprio, la sua passione era il pallone e gioca tuttora ogni settimana, mentre io sono indifferente al calcio. Se c’è la Spagna ai Mondiali guardo le partite, ma nemmeno tutte.

Le piacerebbe trasmettere la sua abilità?

Non ho ancora deciso se un giorno lo farò né so se sarei un buon maestro. Ci sono grandi ballerini che non riescono a spiegare a un bambino le cose che loro eseguono con facilità, mentre ballerini che non hanno fatto furore sulla scena hanno profonda sensibilità didattica. Non si tratta solo di tecnica, ma di comunicare lo spirito che c’è dietro.

Come nasce una coreografia della Sergio Bernal Dance Company?

Prima penso a cosa e come raccontare, poi a quale sia la musica più giusta. Altre volte invece è dall’ascolto di una musica che parte la coreografia.

Da dove arrivano le idee?

Spesso un progetto spunta dai giornali. Ogni sera ne leggo tanti prima di dormire.

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