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Foto Getty
La commemorazione
Il Requiem di Verdi alla Staatskapelle, la preghiera di un'umanità intimorita
Pubblico in piedi alla fine, a commemorare le decine di migliaia di caduti tra il 13 e il 15 febbraio 1945 a Dresda. Il silenzio irreale e gravido di tensione emotiva, sotto la guida di Daniele Gatti e di un’orchestra a tratti inarrivabile
“Non lo dite a nessuno – scriveva Verdi a Clara Maffei nel maggio del 1873 – ma qualche volta piango”. E così anche noi, in buona compagnia, in una gelida sera di febbraio a Dresda, nell’irreale silenzio della sala della Semperoper, una qualche lacrima la abbiamo versata. Si commemoravano gli 80 anni del bombardamento alleato che tra il 13 e il 15 febbraio 1945 rase al suolo la città: ancora dopo la caduta del Muro, si racconta, il centro di Dresda era un cumulo di mattoni anneriti dalle fiamme, seppur tutti rigorosamente numerati.
Daniele Gatti e la sua Staatskapelle, come da tradizione, eseguivano la Messa da Requiem di Verdi in un silenzio irreale, assoluto, gravido di tensione emotiva. Pubblico in piedi alla fine, a commemorare le decine di migliaia di caduti di quei giorni. Ma nessun applauso. Solo una fiera, ieratica, compostezza. Una vera e propria missa defunctorum come troppo raramente si ascolta, riportata alla sua funzione originaria, lontana dagli orpelli dello spettacolo cui siamo tutti abituati.
Gatti ha cesellato, complice un’orchestra a tratti inarrivabile, un Requiem di rara bellezza: una pagina compiuta di storia dell’interpretazione. Le note sempre quelle sono, e le ha messe Verdi: ma qui ogni espressione agogica trovava un senso compiuto nella cornice di un disegno unitario. Non era un Requiem dolente, come pure sarebbe stato lecito attendersi. Neppure si scorgeva nell’interpretazione del Maestro milanese la fierezza di alcune cattedrali sonore (da Palestrina a Bruckner) che spesso hanno costituito il modello interpretativo per questa partitura. No, era un Requiem di uomini, per gli uomini. Sussurrato, a tratti. Pieno di timore e tremore. Lo specchio di quello che Werfel avrebbe definito un mondo al crepuscolo.
Le voci, al pari del direttore, si facevano modelli di interpretazione, senza bisogno di dover inseguire nessuno: Eleonora Buratto, Szilvia Vörös, Francesco Meli e Michele Pertusi, ciascuno nel proprio ambito, hanno tracciato una linea interpretativa unitaria, fatta di sussurri, che resterà nei cuori per molto tempo. Inutile fare paragoni con i grandi interpreti del passato, non serve. Non più. Il paradigma è qui. In questo irreale e magnifico silenzio abbiamo tentato di scorgere nel velo di voce dell’hostias (mai udito così perfetto, così rarefatto), nell’invocazione sussurrata del salva me, nel sillabato del libera me Domine, nello spegnersi finale degli archi (un morendo in Do maggiore con ben quatto p: qualcosa più di pianissimissimo, insomma), l’immagine riflessa dei nostri tempi. Abbiamo sentito il sussurro di una umanità intimorita, sempre più chiusa in stanze a prova di cervello. Tante solitudini fatte di pixel, di specchi che restituiscono immagini accomodanti: mai brutte, mai problematiche, mai vere. In ultima analisi nel freddo di Dresda abbiamo ascoltato una preghiera, sussurrata ma una preghiera. Una preghiera figlia di questo tempo incerto, tiranneggiato dal vuoto incombente, da un’aridità (non solo climatica) che dissecca i cuori e, soprattutto, le teste. Ecco, forse ascoltare questo Verdi ci ha aiutato a ricordare chi siamo, e, soprattutto, dove siamo. Rinnovando la consapevolezza, per chi la ha, di essere tutti, per forza, qua insieme… e per sempre.