
Foto Getty
Storie da raccontare
L'unica colpa dello storytelling è di funzionare fin troppo bene
Un nome nuovo per una pratica vecchissima: raccontare delle storie. Oggi ne siamo circondati, secondo lo scrittore Chris Harrison, ma la colpa è anche del marketing
Guai a non dirsi storyteller. Soprattutto se fai un mestiere che ha a che fare con le parole. Passi per i podcaster. Prima ancora erano stati i giornalisti a rivendicare la qualifica. “Quel modo antipatico di cominciare un articolo raccontando una storia, propria o altrui”, scrive Chris Harrison su The Story. Si capisce subito che è pronto ad accusare di ogni nefandezza lo storytelling. Il raccontare storie: soprattutto se esercitato dai venditori digitali, dai rappresentanti di prodotti farmaceutici, ai consulenti aziendali. Tutti storyteller, o perlomeno convinti di esserlo. Non ci sono più analisti, strateghi, innovatori. Pensano di essere storyteller anche gli architetti, e gli avvocati che si occupano dei fallimenti. Anche i costruttori di ottovolanti. Una decina di anni fa, con molto fervore non disgiunto da feroce ironia, Stefan Sagmeister – professione architetto e designer – si faceva pubblicità sparando sullo storytelling.
L’epidemia per cui se ti devi comprare un paio di calze o una bottiglia d’olio, finanche un pacco di pasta, un viaggio in treno o una maglietta, vieni investito dallo storytelling procura fastidio e irritazione. Ma non è colpa dello storytelling, è colpa del marketing: nulla si vende già se non ha una storiella attaccata, o almeno la parola “esperienza”.
Che colpa ha lo storytelling? Solo quella di funzionare. Un meccanismo ben collaudato. Tant’è vero che gli scrittori lo snobbano o se ne dissociano: destrutturano, scrivono frammenti e memoir, mai si abbasserebbero a raccontare una bella storia con un capo e una coda. A inventarne una, poi? Mica siamo ancora alla vecchia fiction!
Lo storytelling – nome nuovo per una pratica vecchia – funziona cosi bene che anche il saggetto di Chris Harrison contro lo storytelling comincia con il suo bravo raccontino, il suo aneddoto, la sua storiella. Il nome non ha importanza, sempre di storytelling si tratta. Racconta le scimmie che scendono dagli alberi per vivere in pianura, più comoda ma piena di pericoli. I muscoli non bastavano, serviva la comunicazione per avvertire il branco. Segnali sempre più precisi, che tenevano contro dell’esperienza: “Beryl ha mangiato quelle bacche e poi è morta, limitiamoci alla banane”.
La ricostruzione è di Chris Harrison, e se non è storytelling questo nulla ha il diritto di chiamarsi così. Perfino con i nomi delle scimmie coinvolte. Le storie servivano anche per educare i piccoli, e tutto quanto bisognava fare per non regredire lassù sugli alberi. Il siparietto con le scimmie è divertente, come il romanzo di Roy Lewis Il più grande uomo scimmia del Pleistocene: una serie di raccomandazioni da parte del grande scissione che finivano con “E smettete di accoppiarvi con le vostre sorelle”.
Raccontare storie aiuta, ma oggi è troppo, siamo circondati – è sempre Chris Harrison che parla. Joan Didion diceva che “raccontiamo storie per vivere”, e neppure lui osa contraddirla. La sua sodale in materia, tale Maria Tumarkin, sostiene che vivendo di sole storie non riusciamo più a capire ragionamenti e concetti astratti. “Sospendiamo l’incredulità”, così il poeta Coleridge descriveva il ruolo dei lettori di fronte alle storie. Se succede troppo spesso, si scavalcano le le difese razionali (e, sembra dire Mr Harrison, non si ricuperano più).
Chi per diletto legge una storia poi crede a tutte le altre. Spiace informare la bella compagnia che il grande Nabokov pensava il contrario. La letteratura non nacque in quei tempi remoti quando un ragazzo gridò “al lupo al lupo”, con i i lupi che lo inseguivano. Nacque quando il ragazzo urlò “al lupo al lupo” e non c’erano lupi dietro di lui.