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Foto LaPresse
Atenei
Rendicontare la ricerca umanistica si può: conta la qualità dei progetti
L’università trascura ciò che non è di immediata utilità. I finanziamenti sembrano andare tutti alle scienze pure, a danno di quelle umanistiche. Il caso di Oxford
Su questo giornale si è già parlato di “Università addio”, ricognizione della crisi del sapere umanistico negli atenei italiani (a cura di Giovanni Belardelli, Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla, Rubbettino). I cardini del libro sono: la riforma del 3+2 ha abbassato il livello dell’università, liceizzandola; la caccia all’impact factor fa proliferare pubblicazioni mediocri; i rettori sono diventati esponenti di asfittiche élite cittadine; del lavoro accademico viene misurata la qualità non intrinseca ma estrinseca, sul grado di soddisfazione dei clienti. A latere, emerge che l’università trascura ciò che non è di immediata utilità; aumentano le risorse per le materie scientifiche e sociali, diminuiscono per quelle umanistiche; la distribuzione dei finanziamenti europei impone a queste ultime l’adesione a più lucrativi progetti di scienze pure, condannandole a una posizione ancillare.
Sono affermazioni lampanti e, per il sapere umanistico, tutte cattive notizie. Il comun denominatore è che la rendicontazione dell’attività didattica e di ricerca sembra diventata essa stessa il fulcro dell’attività didattica e di ricerca. Se ciò avvantaggia le scienze dure e quelle sociali, ne risentono le umanistiche, che procedono talora per imprevedibili strattoni e in direzione non predefinita.
Va detto, tuttavia, che la rendicontazione non è un male di per sé: il problema è il modo sovente provinciale e ottuso con cui i settori umanistici di vari atenei italiani stanno affrontando questa nuova necessità. In un remoto passato, anche io ho svolto ricerca e saltuaria docenza in facoltà umanistiche, sia nell’università pubblica in cui mi sono laureato, sia in centri di ricerca parificati, sia a Oxford grazie a uno dei più lauti finanziamenti europei per giovani promettenti, la Marie Curie Fellowship. Questa pur fugace parabola fra differenti modelli accademici mi ha consentito non solo di notare come gli addetti ai lavori, indipendentemente dal contesto, mormorino da tempo quanto “Università addio” mette nero su bianco, con cifre e tabelle; ma anche il modo opposto in cui la rendicontazione viene affrontata in contesti differenti.
In Inghilterra (come nel privato) la causa determina l’effetto: ogni giovedì a Oxford si teneva una riunione di allineamento, che consentiva all’intero gruppo di essere aggiornato sul passo che la ricerca stava tenendo. Una volta al mese ci si concentrava sul budget, che veniva aggiornato costantemente in base a costi e guadagni relativi all’obiettivo concreto della ricerca umanistica: la pubblicazione di libri, secondo un piano preventivato di uscite annuali, e la propagazione dei risultati, tramite lezioni, conferenze, convegni. Permaneva così una progettazione stabilita in piena libertà accademica che, eseguita tuttavia in modo capillare e non rapsodico, consentiva che la rendicontazione fosse la mera registrazione del pregresso. Ciò portava denaro. Il finanziamento Ue, nello specifico, non era un riconoscimento al mio scarso talento bensì al mio essere una rotellina nel complesso ingranaggio che coordinava centinaia di studiosi attorno a un progetto umanistico puro.
In Italia (nel pubblico), e molti ex colleghi confermano la mia impressione, spesso l’effetto determina la causa. La possibilità di un finanziamento causa il brusco riaversi di una ricerca umanistica spesso dormiente, col naso ben puntato verso trascurabili ombelichi, cui segue l’affannoso tentativo di esegesi sui possibili criteri preferenziali del bando di turno (l’inclusività? la interdisciplinarità? la tecnologia?) e la costruzione di un progetto ad hoc finalizzato a soddisfarli; salvo poi sbuffare per la mancata assegnazione in favore di un progetto meglio strutturato, magari di statistica o biochimica. Nel primo caso la ricerca umanistica prospera, pur sembrando asservita alle imposizioni dell’utilità; nell’altro mantiene uno stato di vita apparente, utile solo a rivendicare la propria autonomia e irriducibilità a un arido diagramma di Gantt.