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il libro
Il pensiero debole di Vattimo e Rovatti quarant'anni dopo
Il concetto analizzato nel saggio dei due filosofi nasceva da una chiara visione di cosa fosse il mondo, o, almeno, di cosa non fosse. Oggi non se ne parla più e non è detto che sia proprio un bene
Oggi non si parla più di “pensiero debole”, tema molto à la page fino a qualche anno fa. E se da un lato può essere una fortuna, dall’altro è un peccato perché riflettere su quella prospettiva è piuttosto stuzzicante per provare a capire qualcosa dei fenomeni politico-culturali correnti. Quando, quarant’anni fa, uscì il volume curato da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti intitolato appunto Il pensiero debole, il panorama politico era radicalmente diverso ma risultava già chiaro un certo panorama esistenziale di cui quel libro, in maniera più o meno discutibile, forniva un’interessante interpretazione. Scriveva Rovatti: “Che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero ‘forte’ è ormai insostenibile?”.
Il pensiero debole non nasceva per contrapporsi al “pensiero forte” ma assumeva che il pensiero forte inteso in senso tradizionale (tomista, o razionalista, ossia che affermava la corrispondenza tra il mondo e il disegno che la ragione forniva di quel mondo) fosse ormai tramontato per sempre, e con esso tutte quelle strutture storiche su cui l’occidente si era edificato. Il tentativo del pensiero debole era quindi fornire una cornice teoretica per capire “come vivere” nel momento in cui non vi era più “un testo a cui uniformarsi”. Tuttavia, il pensiero debole, proprio perché un pensiero radicato in una sofisticata elaborazione intellettuale era, paradossalmente, “forte”, ossia nasceva da una chiara visione di cosa fosse il mondo, o, almeno, di cosa non fosse.
Nel suo saggio introduttivo, Vattimo, grande interprete di Heidegger, delinea un’ontologia in cui spiega chiaramente come ciò che viene indicato come “morte di Dio” è che “l’essere non è”. Con una tale prospettiva si supera tutta quella tradizione lunghissima che, per stare ai manuali scolastici, inizia con la formula parmenidea secondo cui “l’essere è e il non essere non è”. Dicendo, invece, che “l’essere non è” non si vuole dire altro se non che non vi è alcun fondamento ma solo fenomeni, anzi, solo diverse interpretazioni dei fenomeni che possono anche essere valide contemporaneamente. E che possono legittimamente confrontarsi e procedere insieme fino alla successiva biforcazione: scissione da cui partono nuove interpretazioni. Allo stesso tempo, però, le interpretazioni, per capirsi tra loro, devono avere un terreno comune costituito da una pietas per le rovine della storia, per ciò che la storia ha scartato, ha messo da parte: per tutto ciò che non è la Storia trionfalmente progressiva raccontata dai vincitori.
Un tale pensiero è tutt’altro che superficiale o poco sofisticato, anzi, ciò che Vattimo delinea è la necessità di un pensiero capace di leggere in maniera positiva la dissoluzione di un modello ontologico millenario: ciò che, stancamente, si definisce “il tramonto dell’occidente”. L’indebolimento dell’idea di una Storia unitaria e razionale, della dissoluzione degli assoluti tanto metafisici quanto politico-sociali-religiosi, non rappresentano per Vattimo la totale e straniante deprivazione di senso dell’esistenza ma (e qui sta il twist brillante e discutibilissimo) il senso effettivo della fase storica attuale, della nostra esistenza. E in questo smarrimento, nella prospettiva del pensiero debole, occorre trovare pratiche di vita informate dalla pietas per le rovine di quella è stata la Storia con i suoi assoluti tramontati.
E’ evidente come questa sia una costruzione piuttosto articolata, ma è chiaro, soprattutto, come alla base di una simile filosofia vi è un’idea ben precisa di mondo e di cosa sia, o non sia, l’essere (ossia la condizione di possibilità di tutto ciò che è). Questo orizzonte filosofico ha dato vita a una serie di scimmiottamenti e di dozzinali relativismi che hanno pervaso tutta quella sfera politica e intellettuale che possiamo generalizzare con il nome di “progressismo”. Un tale rischio è naturale quando si crea uno slogan indubbiamente felice e fortunato per descrivere una costruzione filosofica, ed è senza dubbio il caso della formula “pensiero debole”. Il fatto è che la sloganistica in cui si è diluito e perduto tale pensiero (destino forse inevitabile!) è divenuto un pensiero, se ancora si può chiamare tale, non più debole, bensì fiacco, inebetito e parolaio. Ed è divenuto tale perché è privo di presa sulle cose reali. Ciò è avvenuto perché la sloganistica in cui si è disperso il pensiero debole, e la politica “progressista” che si è costruita su quella sloganistica, non ha più un’idea di cosa sia il mondo, non ha più uno sguardo sul mondo. Detto in maniera più sofisticata: non ha un’idea di “essere” su cui poggiarsi. Ma ciò, concretamente, significa che non si può “cambiare il mondo”, o quantomeno provare a spingerlo nella direzione che si desidera “politicamente”, se non si ha idea di cosa il mondo sia, di cosa si vuole che sia, e di cosa esso possa quindi diventare.
L’idea di Vattimo, per quanto interamente contestabile, era potente e intrigante per fornire un orizzonte interpretativo a una sinistra cosiddetta post marxista, ma è franata alla prova pratica della storia. Nulla di strano, capita alla maggior parte delle idee che si scontrano con il mondo. Ma avere un’idea e provare a diffonderla è già combattere la buona battaglia. Del resto il mondo emerge e si dà forma attraverso tentativi ed errori. Invece, la cosa attraente del progressismo contemporaneo, attraente, si fa per dire, perlomeno per chi guarda come semplice osservatore, è che non ha neppure un’idea (più welfare, più diritti, più tutele, più green, più… non è un’idea). Senza una filosofia, senza una “proposta di mondo” (sia pure quella di renderlo debole), non esiste alcuna costruzione politica, e quindi nessuna capacità di persuadere della propria idea. Del resto, come farlo se non se ne ha neppure una?