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Duplice sguardo

L'antologia degli scritti di Paolo Fossati, tra arti figurative e letteratura

Michele Dantini

Quello di Fossati è un nome noto e rispettato tra i critici d'arte, ma fino ad oggi era difficile imbattersi in studi e ricerche che ne approfondissero l'attività. Scritti, l'antologia a lui dedicata, curata da Chiara Portesine e pubblicata per Electa, colma un vuoto. Lo fa scegliendo di indagare il modo in cui le opere letterarie, romanzi e poesie, modellano l'attenzione del critico per le arti figurative

Tra i critici d’arte della generazione dei boomer, emersi a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, quella di Paolo Fossati è la figura forse più fraintesa e negletta. Per motivi molteplici. Una certa alterigia; l’outsiderismo accademico – insegna sì al Dams di Bologna, allo Iuav di Venezia, alla Scuola Normale di Pisa e all’Università di Torino, ma mai in ruolo –; la prosa impervia, soprattutto nel primo periodo; la mancata periodizzazione della sua attività. Non che Fossati rivesta ruoli marginali, tutt’altro: critico d’arte dell’Unità dal 1965 e collaboratore (con Lonzi) della Galleria Notizie, è redattore della casa editrice Einaudi dai primi anni Settanta e qui responsabile, con Giulio Bollati, sia della Storia dell’arte Einaudi (i volumoni arancio) che della collana “Einaudi Letteratura”, dedicata al dialogo tra letteratura e arti figurative. Autore di libri che costituiscono tuttora riferimento per gli specialisti, come La “pittura metafisica” (1988) e Storie di figure e di immagini (1997), è curatore di mostre importanti. Tuttavia, malgrado il suo nome sia per così dire scortato da timore e ammirazione presso gli studiosi e non manchino devozioni collaudate, è difficile imbattersi oggi, a poco meno di trenta anni dalla morte (1998), in ricerche che gettino maggiore luce sulla sua attività.


La pubblicazione, per Electa, di un’antologia dedicata, dal titolo Paolo Fossati. Scritti, a cura di Chiara Portesine, viene a colmare un vuoto. Studiosa della neoavanguardia letteraria, Portesine sceglie un punto di vista per così dire laterale. Fossati si forma come filologo romanzo con D’Arco Avalle, di cui diviene assistente all’Università di Torino (dal 1966 al 1975); si lega in sodalizio con un poeta e saggista come Sanguineti; è collega di Calvino in Einaudi; ha passioni letterarie sperimentate e durevoli – per Montale, ad esempio; o Manganelli –. Tutto ciò depone a favore di un “duplice talento” di Fossati, un inquieto va-e-vieni tra letteratura e arti figurative. Perché allora, si chiede Portesine, non indagare il modo in cui romanzi e poesie modellano l’attenzione del critico per i quadri e ne istruiscono lo sguardo? Due a mio avviso i meriti maggiori di Fossati. Innanzitutto: è tra i primi, a cavallo tra Sessanta e Settanta, a comprendere la trasformazione “neocapitalistica” del mercato dell’arte contemporanea, che diviene sovranazionale; e a reagire indicando la necessità non tanto di distruggere, quanto di conservare (fonti archivistiche e documentarie, genealogie, etc.). Gioca la carta dell’editoria come circuito espositivo alternativo alle gallerie commerciali – esigenza, questa, che Emilio Sereni aveva formulato al tempo della sua Presidenza della Commissione culturale del Pci, tra 1948 e 1951; e si era regolarmente ripresentata, negli anni Sessanta, nei milieux di partito. La collana “Einaudi letteratura”, cui si è già accennato, risponde appunto a questo intento: i singoli volumi che ne fanno parte presentano un’opera d’arte contemporanea in copertina o sono tout court affidati a artisti italiani contemporanei perché vi riversino aforismi, disegni, sapienze o memorie e garantiscano alle arti figurative una circolazione diversa da quella del mercato. Vis-à-vis della crescente “internazionalizzazione” dell’arte contemporanea, il tema della memoria diviene prioritario.

Pubblicata in dodici volumi a partire dal 1978, la Storia dell’arte Einaudi è un diverso modo, per Fossati, di intendere l’eredità culturale. Affidata prima a Previtali e poi a Zeri, che aborre Previtali, la vasta impresa editoriale rintraccia i “luoghi” eminenti (storici, topografici, culturali) dell’ “identità” italiana e congiunge in profondità studio dell’arte e mobilitazione civile. Vi si avverte una preoccupazione per la continuità storica della cultura italiana e la sua “sopravvivenza” nel contesto atlantico che Fossati non aveva manifestato in precedenza.
Secondo merito: il distacco da marxismo, strutturalismo e dalla critica d’arte dottrinaria diffusa in Italia più che altrove nel dopoguerra. Distacco forse non precoce, ma radicale. La stagione tarda è a mio avviso la migliore di Fossati, segnata dalla revisione (ideologica e di metodo) delle agende di ricerca. Tale revisione investe anche la scrittura. Laddove prima trovavamo “ragionamenti” sull’arte, quasi questa fosse una riunione al vertice, subentra adesso il racconto. La prosa si distende, viene meno la petulante insoddisfazione del giovane critico e le attitudini letterarie aiutano a disfarsi di gerghi specialistici. L’asticella si innalza: Fossati cala qui abilmente la critica d’arte nel “discorso pubblico” e la trasforma in una storia della cultura persuasiva, scevra da forzature.

 

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