Vivisezione delle trame, dei fantasmi e dei tormenti di “Il giorno dell'ape” di Paul Murray

Il nuovo romanzo, tradotto da Tommaso Pincio per Einaudi, è un’analisi attenta e sensibile delle dinamiche di una famiglia come tante, i Barnes, la cui esistenza è stata sconvolta dalle calamità sociali ed economiche del primo decennio di questo secolo

Sosteneva Italo Calvino che quanto accade all’inizio di un romanzo rimanda sempre a qualcosa d’altro che è successo o che sta per succedere, e questo qualcosa rende rischiosa l’identificazione tra il lettore e i protagonisti. E allora leggiamo l’inizio de Il giorno dell’ape, di Paul Murray, e cerchiamo di presagire i rischi cui il libro ci espone: “Nel paese vicino, un uomo aveva ucciso la famiglia. Aveva inchiodato le porte perché non uscisse nessuno; i vicini li avevano sentiti correre per le stanze, gridare, chiedere pietà. Finita l’opera aveva rivolto la pistola contro sé stesso”.

   
Un uomo stermina la propria famiglia e si toglie poi la vita. Non sappiamo cosa abbia determinato un grado di disperazione così intenso da fare di un padre un pluriomicida. Sappiamo solo del clamore che l’efferato crimine ha saputo destare sia nel momento della sua attuazione sia nelle successive fasi, che per un giorno hanno assicurato a una remota periferia irlandese la prima pagina dei quotidiani. Altra singolarità niente affatto marginale: per lo scellerato assassino era essenziale impedire ogni via di fuga. L’azione delittuosa avrebbe dovuto esser fatale per ogni sua vittima. Insomma, qualcosa di tragico e alfine incomprensibile irrompe nella vita di una famiglia come tante, per suscitare irreversibile scompiglio e condurla verso una fine improvvisa e tragica.

    
Come per ogni incipit, è questa la chiave offerta dallo scrittore dublinese per guidarci lungo la lettura di un romanzo che fa suo quello stimabile indirizzo della letteratura contemporanea capace di fare i conti col romanzo classico. E proprio come la letteratura nell’epoca d’oro del romanzo, Murray avoca a sé il duplice onere di intrattenere con eleganza e al contempo sottoporre a critica l’intero nostro presente. Il giorno dell’ape (tradotto da Tommaso Pincio per Einaudi Stile Libero) è in effetti un’analisi attenta e sensibile delle dinamiche di vita, talvolta felici e più spesso penose, di una famiglia come tante, i Barnes, la cui esistenza è stata sconvolta dalle calamità sociali ed economiche del primo decennio di questo secolo.

  

Murray sfoggia uno stile cangiante, in grado di adattarsi al registro linguistico e alle esigenze psicologiche di ogni membro della famiglia

    
Come si diceva sopra, i tratti distintivi della storia narrata da Murray sono il carattere tragico (spesso tragicomico) e l’incapacità di prevedere le svolte della vita, specie le più funeste. Si tratta di caratteristiche tra loro eterogenee ma annodate, come a voler significare che nel passato dei membri della famiglia Barnes potevano in fondo intravvedersi tutti i segni premonitori degli eventi che li avrebbero crudelmente sorpresi. Per restituire questa sensazione di “saputo già da sempre”, l’autore sceglie uno stile che, più che l’illustre connazionale Joyce, rievoca il Faulkner de L’urlo e il furore. Capitolo dopo capitolo, in cui ogni singolo protagonista restituisce la propria visione, Murray fa sfoggio di uno stile cangiante, in grado di adattarsi al registro linguistico e alle esigenze psicologiche di ogni membro della famiglia, che viene ritratto in un contrappunto delicatamente personale.

   
I primi due capitoli, che ci trasmettono le voci dei figli, Cass e PJ, sono intessuti di quelle forme e quelle formule che spesso ci fanno biasimare il linguaggio dei più giovani, così vicino alle forme e alle formule dei social media e quindi incapace di un’analisi più meditata della realtà circostante. Il tono s’infittisce e la struttura psicologica si stratifica via via che gli adulti prendono la parola. Non che in Murray sia individuabile un’intenzione critica, come se allo stile scialbo e alla psicologia facile corrispondesse un giudizio sul personaggio. Piuttosto, l’evolversi della caratura psicologica e l’inspessirsi del registro linguistico sembrano voler indicare un percorso di crescita al plurale, proprio come nel vecchio romanzo di formazione, ma appunto in chiave collettiva. La famiglia Barnes, come una sorta di assemblaggio unitario, è chiamata a un doloroso percorso di ripensamento della propria storia comune quando il loro presente non è più sostenuto dal potere anestetizzante della routine.

   
Interessante allora è che il percorso di recupero e ripensamento della storia sia scandito da capitoli in cui gli stessi fatti e gli stessi eventi sembrano essere diversi, quasi in tensione tra loro. I ragazzi sanno poco e male del loro passato, si fanno domande intorno ad esso; la loro prospettiva è spesso viziata da preconcetti e avvilita da una rabbia poco riflessiva, tipica dei giovani costretti a gestire difficoltà più grandi della loro età. Gli adulti sembrano invece sapere tutto, eppure approdano a storie diverse – sincroniche e allineate, sì, ma di certo non identiche. La soggettività dei vari protagonisti è resa dunque con l’effetto di una policromia linguistica e affettiva che depista il lettore, per meglio ingraziarselo però con un senso di meraviglia.

   

L’aura vittoriana: la storia è abitata da fantasmi, segnata da apparizioni, infestata da spiriti. Poi però si torna nel materialissimo presente

     
In effetti, un’ulteriore caratteristica de Il giorno dell’ape è l’aura vittoriana (o, se si vuol premiare la biografia dell’autore, del folklore irlandese). La storia è abitata da fantasmi, segnata da apparizioni, infestata da spiriti. Alcuni membri della famiglia allargata presagiscono sciagure, certi eventi sono occasioni per il manifestarsi di misteriose entità. Il tutto in una chiave che ci riporta però nel materialissimo nostro presente, trapunto com’è di sconcertanti fregature. Il processo di disperata catarsi cui sono costretti i Barnes parte infatti quando la catena di concessionarie di auto di Dickie, ereditata da un padre assai più abile e fortunato, inizia ad andare male per via della terribile crisi economica registrata in Irlanda. Correva l’anno 2008 quando, persino prima del fallimento di Lehman Brothers, il sistema economico irlandese si ritrovava oltremodo indebitato sui mercati esteri e le banche non riuscivano a trovare finanziatori.

   
Con il fare tipico della letteratura che pensa sé stessa in chiave di epopea culturale, benché in miniatura, i temi del romanzo sono così tanti e così fittamente intrecciati che risulta impossibile offrirne una rassegna sintetica. Crisi finanziaria, cambiamento climatico, genere e sessualità, impatto dei social media, rapporto tra generazioni, capitalismo arrembante, isolamento della provincia, e così via. Eppure, se per unire questi temi volessimo trovare un filo, si potrebbe indicare quel legame tra il tragico e l’imprevedibile di cui si scriveva sopra, per tramite del quale si mette in scena un processo che segna ognuno dei Barnes: l’essere il fantasma di sé stessi quando ci si ritrova a vivere una vita che sembra altrui. Questo effetto scenico viene d’altro canto esaltato dalla diversa caratterizzazione di ciascun protagonista capitolo per capitolo. 

 
Imelda, la madre di Cass, figura nelle parole della figlia come una sciocca e sopravvalutata starlette che invecchia bene e che riesce, non si capisce come, a esercitare un potere tanto magnetico quanto vano sulla gente. Nel capitolo affidato invece alla voce di Imelda, in cui Murray adotta uno stile vicino ma non troppo al flusso di coscienza (di fatto è la sola punteggiatura che manca), la figura della donna è segnata da falde e livelli, dei quali Cass non ha alcun sentore. D’altronde, proprio a Imelda si deve il titolo del romanzo: sin dalle prime pagine si apprende che un’ape le aveva punto il viso il giorno delle nozze e l’aveva costretta a tenere il velo durante tutte le celebrazioni. Segno dell’inane frivolezza della madre, agli occhi di Cass. Eppure, mentre proseguiamo nella lettura, apprendiamo i dettagli di una storia ben più complessa, che pagina dopo pagina guadagna in profondità – come a voler indicare che ogni singolo evento si presta a letture della superficie e a letture del profondo, che pure sembrano farne eventi del tutto diversi tra loro. 

 
Lo stesso può dirsi per Dickie, che l’autore nei capitoli iniziali affresca come un indaffarato ma inabile commerciante d’auto, spesso assente da casa per far fronte alle conseguenze della crisi (senza successo, beninteso). Eppure, questo non è che il fantasma di Dickie, vale a dire una sorta di immagine ectoplastica che vela un abisso insondato, fatto di incertezze sulla propria identità sessuale, sul rapporto mai rescisso col fratello morto, sulla necessità di sostituirsi in molte forme a questi e rinunciare così a vivere la vita che si sarebbe altrimenti scelta. Per questa ragione, Dickie sa di posticcio, di rimediato, quindi inadatto alla vita individuale e famigliare, costante oggetto di risentimento all’interno del suo piccolo aggregato. 

 

Il padre Dickie e la sua immagine che vela un abisso, fatto di incertezze sulla propria identità sessuale, sul rapporto col fratello morto

   
Ma l’incantamento dura poco. L’aura folklorica del soprannaturale, passo dopo passo, si risolve in una sequela di crisi d’identità: ciascun personaggio sembra affetto da un disadattamento cronico, che va però letto come una manifestazione particolarmente violenta dell’insoddisfazione nei confronti della propria vita. Come se l’irruzione della crisi economica e finanziaria nell’esistenza dei Barnes non avesse fatto altro che scoperchiare la scatola di una putrescenza avviata da tempo – troppo tempo, prima persino che Cass e PJ nascessero. Probabilmente, non c’erano neppure le premesse per avviare un progetto complicato come il metter su famiglia in un mondo che va saturandosi di difficoltà, per le quali Dickie e Imelda non sono attrezzati. 


Questo senso di inguaribile manchevolezza viene restituito da Murray in termini di una costante percezione d’incombenza della catastrofe climatica. Mentre svolge i compiti a casa, Cass apprende della gravità delle emissioni di carbonio di cui si macchia l’azienda di famiglia; Dickie risponde a questa sua angoscia con un nichilismo apocalittico, che lo spinge a rimettere in piedi una pencolante capanna adiacente alla loro abitazione, non a caso definita “il Bunker”; il padre di Dickie, Maurice Barnes, s’era da tempo premurato di sottrarsi all’incipiente collasso cercando riparo in una lussuosa vita da pensionato in Portogallo. 

 
Insomma, via via che leggiamo, si rafforza il senso di una stretta alla gola creato dal congiungersi di crisi finanziaria e crisi ambientale, che dalle levità della favola vittoriana ci getta nelle angustie del concretissimo presente. E allora, è probabile che i fantasmi di cui nel libro si fa menzione in più di cinquanta occasioni siamo noi. Nel gioco di specchi riflessi, in cui nessuno dei Barnes, agli occhi dei famigliari e forse anche dei propri, è veramente sé stesso, neppure i Barnes sono i Barnes. Il giorno dell’ape parla di noi, dalle pagine iniziali fino alla controversa conclusione, che tante polemiche ha destato tra gli ammiratori dell’autore irlandese e su cui qui sarebbe oltraggioso scrivere, benché credo potrebbe confermare quanto vado qui sostenendo (si rimanda, rigorosamente dopo la lettura, all’intervista che Murray ha rilasciato ai microfoni dell’ABC). 

 
Nella tragicomica esposizione dei caratteri adolescenziali dei due ragazzi, così palesemente figli dei loro tempi, apprendiamo in modo inconsapevole ma netto che questi tempi sono anche i nostri. Che dunque anche noi si è un po’ Cass un po’ PJ. Come Cass, siamo bigotti e un poco farisei, scontrosi, convinti di salvare il mondo anche quando non alziamo un dito, pronti a indicare nel prossimo il responsabile di ogni male e quindi mai capaci di indulgenza per le altrui imperfezioni (e dunque, in fondo, neppure per le nostre). Così, ci ritroviamo con l’essere ridicoli e mai del tutto credibili. Eppure sappiamo anche essere impacciati e cedevoli come PJ, che si fa picchiare senza fare un fiato da un suo coetaneo e architetta piani di fuga buoni forse per i videogiochi che tanto ama. Come PJ, odiamo cordialmente tutti quelli che somigliano a sua sorella.  

 
Siamo irrealizzati come Dickie e Imelda, immersi in una vita che s’è vissuta per pigrizia, o forse per pavidità, e i cui eventi, quindi, viviamo come non fossero i nostri. Le cose ci capitano, senza che le capiamo – finché, posti dinanzi alla necessità di capirle, non si è costretti al recupero, mai davvero possibile, di chi ci si prometteva di essere prima di fare nostre le vite altrui. Come Dickie e Imelda, e come i loro figli, siamo sempre indotti a ritenere che la soluzione sia da trovarsi in un altrove in cui tentiamo di fuggire con l’urgenza di chi ha appreso la notizia dell’apocalisse all’ultimo minuto. In questa importuna e scomposta diserzione, ci avvediamo del fatto che siamo in ritardo su ogni tappa. 

 
Frana dunque ogni nostra speranza man mano che il libro prosegue, travolti da piogge torrenziali che ci serrano in casa e ravvivati poi da un caldo mai registrato prima, del quale pure godiamo come se fosse un dono che non richiede pesantissimi contraccambi. In forza di questa opacità a noi stessi, Il giorno dell’ape ci fa ridere e riflettere, senza caricarci del peso delle domande ultimative. Fino però a un punto di svolta, un punto terminale. Vale a dire finché non si giunge alla fine del libro, in cui Murray sembra volerci lanciare un monito di condanna: abbiamo tutti noi oramai da tempo abbracciato la fallace ottica dei Barnes, e viviamo come se potessimo scindere il dato della catastrofe imminente dalla piacevolezza anestetica della routine, fin al giorno in cui non capiremo che qualcuno, proprio da dentro casa nostra, ha fissato dei chiodi alla porta, che ci impediscono ogni via di fuga. 

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