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il libro

Caro Singer che ci ricordi dell'ambiguità, massimo regalo della letteratura

Marco Archetti

"A che cosa serve la letteratura?" è una bussola per chiunque scriva e chiunque legga, per orientarsi in una selva di opere che sembrano andare in qualunque direzione. Una raccolta che andrebbe letta ad alta voce in ogni scuola di scrittura

Isaac B. Singer amava Tolstoj e odiava le biografie. Diceva: “Quando uno ha fame, non si preoccupa della biografia del fornaio”. E siccome era uno che razzolava meglio di come predicava, era convinto che la verità di uno scrittore si trovasse solo in un luogo: sulla pagina. “A che cosa serve la letteratura?” (Adelphi, 210 pp., 19 euro) è da pochi giorni in libreria. E’ diviso in tre sezioni – “Le arti letterarie”, “Yiddish e vita ebraica”, “Scritti personali e filosofia” – e oltre a essere un riferimento per chiunque scriva è una bussola, oggi, per chi legge, utile a orientarsi in una selva di opere che sembrano andare in qualunque direzione meno che quella della letteratura. Come riconoscere quella buona? Tanto per cominciare, ammonisce Singer, o racconta storie o non è. “Togli la storia e non c’è più letteratura. Mi dispiace che molti scrittori abbiano scordato questo semplice fatto”.


Caro, profetico Isaac, la cui voce arriva fino a noi da ogni pagina di questa raccolta di introvabili interventi sulla stampa pubblicati soprattutto dal quotidiano yiddish Forverts. Pare che in vita covasse l’idea di raggrupparli prima o poi, pertanto trattasi di compimento postumo di un’intenzione – evviva i risultati. Implacabile controcanto a tutta la letteratura che letteratura non è, il tono di Singer non è quello del giustiziere o del moralista, semmai di chi richiama la letteratura alla sua funzione: intrattenere. E la vorrebbe distogliere da tutte le derive – le due più grandi avversioni singeriane: quelle psicologiste e quelle ideologiche. Banalità, verbalismi, ipocrisia. Se c’è una questione che lo scrittore ribadisce di continuo è la necessità della concretezza, e della concretezza delle tenebre e del male in una storia, in modo che i pensieri e le azioni di un personaggio siano perennemente in bilico tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Settant’anni dopo, caro lucidissimo Isaac, eccoci qui: cambiamo i finali alle opere liriche, edulcoriamo le favole per bambini e rifiutiamo il massimo regalo che l’arte letteraria ci fa, ossia l’ambiguità.

Di questa raccolta, che andrebbe letta ad alta voce in ogni scuola di scrittura, formidabile è la semplicità tutta singeriana (non aliena a una nota austera epperò sorridente, insomma: Singer in purezza) con cui lo scrittore getta luce su minuscoli dettagli rivelatori, e anche la sua lettura dei romanzi altrui e del posto che hanno in un panorama più vasto. Scopriamo, per esempio, che Singer amava molto Strindberg, e se da un lato ci sembra ovvio e inevitabile, per altri aspetti sembra sorprendente; senza incrinature la sua ammirazione per Tolstoj, ma fino a un certo punto, perché “dopo essere diventato un maestro della letteratura, un’autorità e un vero faro, all’improvviso in tarda età cominciò a farsi domande da bambino. Non riusciva a rassegnarsi al fatto di essere destinato a vivere per pochi anni e poi sparire per sempre”.


Ma una storia – ci ricorda lo scrittore – è eterna quanto più è circostanziata, quanto più porta con sé “le impronte digitali” di un personaggio, perché il fondamento della letteratura è sempre l’individualità. Però occhio: alcuni scrittori “non ritraggono i loro personaggi, scrivono dei saggi su di loro” e poi “mettono insieme la favola e la morale della favola, raccontano un fatto e poi lo spiegano”. E non si fa. Fulmini e saette anche contro la politicizzazione del racconto: “La letteratura – scandisce Singer – non è un mezzo di propaganda. Non puoi sederti alla scrivania e produrre un romanzo che contribuisca al socialismo, al sionismo, al liberalismo o a qualunque altro -ismo”. Ricordarselo sempre: “Il vero scrittore non lotta contro l’ordine sociale, ma contro Dio”. Sferzate risolute contro gli eccessi: se lo sforzo di un autore è concentrato sull’originalità dello stile “l’opera perde la sua forza,” costretta a sopravvivere “tra le rovine delle stupidaggini e della banalità, della psicologia vacua, della finta sociologia, del formalismo vuoto. Il solipsismo non è un’arte” e la letteratura “sta diventando sempre di più la psicanalisi e la psicologia del dilettante”. Infine una frase-guida, angolare, da mettere in cornice: “Nell’arte, una verità noiosa è falsa”.

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