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Poesia

Gli orrori del Novecento nella biografia e nei versi di Paul Celan

Matteo Moca

Ritorna in libreria l'antologia che segnò il primo ingresso italiano di un autore che avrebbe plasmato l'immaginario di molti scrittori e poeti. Un itinerario strettamente legato alla sua esperienza biografica e alla scoperta violenta del male. In grado di forgiare la sua voce e un intero nuovo linguaggio fatto di silenzio e annullamento

Nel 1976 uscì in Italia la prima antologia di Paul Celan con traduzione di Moshe Kahn, un giovane poeta che Celan stesso, molto esigente in termini di traduzione, aveva scelto. Queste versioni, riviste e ripubblicate da L'Orma, sono un documento importante sia perché testimoniano il primo ingresso italiano di un autore che avrebbe plasmato l'immaginario di molti scrittori e poeti, sia perché sono la prova concreta di una delle più straordinarie e dolorose esperienze poetiche del Novecento, intrisa del secolo in cui è stata esperita, ma ancora contemporanea. La scelta di Kahn è un termometro preciso delle fasi del pensiero di Celan, nato in Romania nel 1920, e ne restituisce tutta la problematicità, mostrando il cammino, breve ed estremamente denso, dalla forma descrittiva iniziale all'orlo del silenzio delle ultime raccolte, un itinerario strettamente legato all'esperienza biografica del poeta e alla sua scoperta violenta del male. Figlio di ebrei di lingua tedesca (il padre ortodosso, la madre appassionata di letteratura tedesca), studierà medicina in Francia (passerà in treno da Berlino proprio durante la Notte dei cristalli), prima che la persecuzione nazista colpisca i suoi genitori, che muoiono in un lager in Transnistria, il padre di tifo, la madre giustiziata perché “inadatta al lavoro”.

Questa prova concreta dell'esistenza del male forgia la voce del poeta che si ribattezzerà, anagrammando la trascrizione rumena del suo cognome, Paul Celan, nuovo nome che simboleggia l'origine di una nuova percezione del mondo che affonda in ciò che è accaduto. Qui sta la natura problematica di una poesia scritta da un ebreo nella lingua dei suoi aguzzini (dalla Francia, dove si trasferisce, si interroga sul significato dei suoi versi in mano agli assassini dei genitori, sul valore di una lingua, il tedesco, che è materna e assassina) e quindi una ricerca sulla possibilità di testimoniare il male più assoluto. Se Adorno si interrogava sulla possibilità che la poesia potesse ancora esistere dopo Auschwitz, i versi di Celan, tutti abitati da questa tensione, sono una risposta sconvolgente, sono la creazione di un nuovo linguaggio che, nella sua continua sottrazione verso il silenzio e l'annullamento, priva l'uomo della sua stessa natura, facendolo scomparire.

Lo stesso poeta, fiaccato dalle ripetute crisi psichiche e da un dolore che ne innerva ogni fibra, nel 1970 si getta nella Senna dal ponte Mirabeau, ponendo fine a un percorso archeologico tra le forme del male, andando fino in fondo, come scrisse l'amico Emil Cioran, “alle sue possibilità di resistere alla distruzione”. In un discorso del 1960, Celan dice che la poesia è ontologicamente priva di geografia e confini, e assomiglia a un meridiano, una linea nello stesso tempo immaginaria e concreta, abitata dai suoi maestri (l'esiliato Mandelstam, il folle Hölderlin, i saggi chassidim) e dove è possibile trovare, come ha fatto lui, quel punctum invisibile che unisce il nulla e l'infinito, luoghi supremi a cui solo la poesia può avvicinare. 

 

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