
Vitaliano Brancati (Ansa)
Nessuno meglio di Vitaliano Brancati raccontò il trasformismo all'italiana
L'autore, maestro nel ritrarre i fascisti e il loro linguaggio, ma anche i vecchi antifascisti borghesi del Ventennio, in cui, l'abitudine all'insuccesso, aveva generato un'amarezza che col tempo era diventata piacevole come il sapore di un vizio
Siamo italiani, dunque retorici: ciò che si presenta come tragico, struggente o abissale, continua a sembrarci istintivamente più serio e più importante di ciò che è comico. E il pregiudizio non è affatto smentito, ma semmai confermato dal gusto diffuso per una comicità pretesca, bamboleggiante, o magari esibizionisticamente “cattivista”. Perché invece il comico vero, il comico a tutto tondo, dietro il ghigno lascia sempre trasparire un lutto, una malinconia, una fragilità mai esauribili in una battuta sprezzante; e al tempo stesso è un tipo che non per questo rinuncia alla sua esuberante superficie di riso. Così è Vitaliano Brancati, uno degli scrittori più sottovalutati del nostro Novecento. Il Brancati che leggiamo (quello degli “Anni perduti”, del “Bell’Antonio”) è un autore che nasce dopo aver demistificato in chiave radicalmente antieroica la propria giovinezza mussoliniana e dannunziana, e che nel secondo Dopoguerra denuncia con precisione le affinità tra fascismo e postfascismo, tra miti dittatoriali reazionari e marxisti. Lo fa soprattutto attraverso il genere che gli è più congeniale: un misto di scorcio narrativo e saggio di costume, di diario aforistico e dialogo teatrale.
Così è costruito nel 1946 “I fascisti invecchiano”, uno dei modelli delle sciasciane “Parrocchie di Regalpetra”, che oggi ci viene riproposto da Elliot. Un paesino siciliano, un salotto di ex gerarchi bastano qui a rappresentare le costanti socioculturali dell’Italia, il suo trasformismo e la sua retorica al cambio di regime. I notabili continuano a comporre lettere anonime contro gli avversari invertendo appena i termini delle accuse, gli ex mistici mussoliniani fanno i blasé deridendo la “libertà”, e i volti dei fanatici (di cui Brancati è un formidabile lettore) mostrano ancora “una crudeltà priva di follia e di rimorsi, una pedanteria priva di scienza (…) una barbarie senza candore”. Memorabile la pagina dove si descrive il linguaggio dei funzionari, che nel 1936 dicevano “la grande epoca in cui viviamo e il nostro amato Capo”, e dieci anni dopo scandiscono in pubblico “il periodo del nefando regime e l’odiato tiranno”, ma in nessun caso si sono concessi il diritto di esprimersi con un semplice “il periodo del fascismo” o “Mussolini”. Si capisce allora perché alle adunate fasciste sia subentrato un antifascismo che punta con altrettanta enfasi sulle “masse” e che disprezza ugualmente gli individui. Ma Brancati è maestro anche nel ritrarre i vecchi antifascisti borghesi del Ventennio: “l’abitudine all’insuccesso”, scrive, aveva generato in loro “un’amarezza che col tempo era diventata piacevole e indispensabile come il sapore di un vizio”, al punto che, un po’ come la sinistra di ieri e di oggi, avrebbero “rinunziato al piacere di vincere piuttosto che a quello di amareggiarsi”.
Molto peggio, però, sono gli ex fascisti che ora fanno gli epuratori, magari denunciando i tipi meno stentorei che sotto la dittatura hanno sofferto in silenzio. Brancati colpisce ovunque la fascinazione per un’idea monumentale della Grandezza: la vera opposizione la fa per lui “l’uomo comune”, non a caso bestia nera dei fanatici che “sanno che quella faccia, in apparenza così debole e insignificante, ha in verità la grandezza di un mare tranquillo nel quale sprofonderanno come sassolini, e si perderanno per sempre, senza lasciare alcuna traccia, i loro sforzi, i loro urli e le loro teorie”. Ma vera opposizione l’ha fatta anche chi come Croce, malgrado le sue teorie, ha mantenuto il controllo della ragione in un mondo che esaltava la pura azione irriflessa, la stupidità muscolare, l’istinto: e qui l’ex giovane fascista critica sé stesso, offrendoci un ritratto del giovane Vitaliano che avrebbe dato la sua intera cultura per “un bicipite ben rilevato”. C’è infine un leitmotiv che attraversa tutto il libro, e che oggi alcune democrazie a rischio di autodistruzione ci ricordano in modi orribili e grotteschi: nessuno, ripete Brancati, è autorizzato a rappresentare in permanenza la libertà o la giustizia solo a causa dei suoi meriti passati.