
Foto ANSA
Denutrizione culturale
Poeti che si sono moltiplicati, poesia che da marzo non arriva ad aprile
Scrittori, editori, critici, studiosi, e lettori. La cultura letteraria nel suo insieme si è impoverita per denutrizione e scarsa capacità inventiva, tecnica e critica. E fa centinaia di autori in circolazione tra ieri e oggi, quelli che sono riusciti a entrare nella storia della letteratura sono non più di una dozzina
Visti l’impegno e la forza di convinzione che la Lettura del Corriere e la Domenica del Sole 24 Ore dimostrano con i loro numeri di domenica scorsa nel battezzare questo mese di marzo 2025 “mese della poesia”, provo a prendere sul serio, come si deve, la loro iniziativa.
La Lettura apre con un articolo a lenzuolo su due pagine del critico di poesia Roberto Galaverni (un amico che non sento da qualche anno) mentre la Domenica usa un testo da poco riscoperto di Borges. Titolo al Galaverni: “Siamo figli della poesia”. Titolo al Borges: “L’enigma della poesia e la resurrezione della parola”. Al Borges del Sole, il Corriere risponde con due autorità come Montale e Szymborska, entrambi premio Nobel. Insomma, noi “figli della poesia” perché, stando a una frase di Pasolini, la poesia è tradizione e la tradizione è di per sé poesia, che il progresso attuale ha cancellato. La poesia, cioè, per esistere deve far rivivere la sua tradizione in ogni sua innovazione (ma questa idea di Pasolini mi sembra dimenticata o tradita). C’è poi “l’enigma della poesia”, l’enigma del suo perché è e del suo come in poeti sempre nuovi nei quali risuonano (o risuonerebbero, se va bene) le voci poetiche del passato.
Il punto è questo. Si conta sull’affermare che la poesia, o quello che come tale si presenta, sia tradizione, ripresa, ritorno, reincarnazione di ciò che fu poesia per secoli e millenni. Si evita però l’essenziale: che non si tratta di fatti evidenti e accertati, ma di ipotesi autogarantite dall’essenza mitologico-concettuale o puramente nominale della poesia che, proprio come Dio Essere Supremo, esiste per definizione e quindi, se non esiste, non è Dio.
Nella seconda metà del Novecento, diciamo dagli anni Settanta in poi, il fenomeno nuovo, culturale, psicologico, ideologico è stato che le decine e decine di nuovi poeti fossero poeti in virtù del valore poetico di testi scritti, che invece erano già secondari. Se erano poeti, lo erano per autoinvestitura e fede in sé. Erano poeti perché si sentivano poeti, volevano (per qualche misteriosa ragione) essere riconosciuti poeti perché credevano fermamente di esserlo, come per identità teorico-ontologica, perché leggevano sé stessi in pubblico e gli editori li pubblicavano per farli leggere. Seppure qualche volta un po’ lo erano, lo erano in virtù del nome e dell’idea magica di poesia. Una logica del mantra (o della pubblicità) che più lo ripeti e più diventa realtà. Più quel nome e cognome riesce a girare come nome e cognome di un poeta, e più diventa necessariamente una realtà da riconoscere. E viceversa, se un nome non viene fatto girare e resta taciuto come nome di un poeta, più la poesia che scrive viene ignorata.
Torniamo all’idea di tradizione che oggi rinasce o dovrebbe rinascere in ogni poeta nuovo. In verità, nella stragrande maggioranza dei casi, negli anni Settanta, la continuità con il passato remoto e prossimo si è interrotta. Per quanto potessero non essere del tutto convincenti, autori come Sereni e Fortini, Caproni e Luzi, Sanguineti e Zanzotto, Pasolini e Giudici erano in continuità con Saba e Montale, con Valéry e Eliot, Machado e Brecht, Ungaretti, Pound, García Lorca. Invece non si vide più continuità fra i post-postmoderni di fine Novecento e i poeti immediatamente precedenti e attivi negli anni Sessanta.
Perché questo? Credo che sia stato possibile anzitutto perché la nuova poesia, dagli anni Settanta in poi, è stata una poesia senza critica e senza una vera continuità culturale con le varie tradizioni precedenti. L’iperproduzione di testi e di autori è dovuta all’assenza di società letteraria e alla scarsissima, spesso nulla autocoscienza critica degli autori. Una speciale responsabilità in proposito è stata quella delle maggiori e tradizionalmente prestigiose case editrici. Hanno pubblicato moltissima poesia e una tale quantità di poeti che non avrebbero neppure dovuto essere citati come poeti.
E’ la cultura letteraria nel suo insieme (scrittori, editori, critici, studiosi, pubblico di lettori) a essersi impoverita per denutrizione e scarsa capacità inventiva, tecnica e critica. A partire dalla mia generazione, quella che esordì intorno al 1975-1980, i poeti si sono riprodotti e moltiplicati senza freno per ubbidire a un malinteso diritto alla creatività indifferenziata e senza confini (i poeti in circolazione tra ieri e oggi sono fra i cento e i duecento), mentre quelli che sono riusciti ad avere una storia che li ha fatti entrare nella storia della letteratura sono non più di una dozzina. Chi entri a far parte di questa dozzina credo di saperlo. Preferisco però non dirlo. Finché editori, lettori e professori di letteratura non saranno in grado di riconoscere chi sono, per la poesia non ci sarà speranza, né a marzo né in altri mesi dell’anno.
P.S. Non avendo io al mio servizio una qualunque Lilli Gruber che mi organizzi una televendita nel corso di un dibattito, chi volesse conoscere le mie irrilevanti e impopolari opinioni critiche può leggere di nascosto il mio libro L’ultimo secolo di poesia italiana, Quodlibet editore.