
L'editoriale dell'Elefantino
Lode al Gattopardo, sublime testimonianza dell'eternità climatica
Dimenticate la serie tv, impresentabile, e rileggete il romanzo, che è anche racconto civile di come siamo stati fatti, condizionati e rappresentati da una natura canicolare che ci ha sempre prevaricati, allarmati e prostrati
La frase più stupida del secolo televisivo è stata individuata da Aldo Grasso e Mariarosa Mancuso in modo folgorante, definitivo. La frase è altisonante, sciatta, di una sulfurea inverosimiglianza: “Lasciate passare il Gattopardo!”. La serie televisiva tratta dal romanzo di Tomasi di Lampedusa è impresentabile, va da sé. Siamo stati abituati a serie che attraverso le risorse della sceneggiatura e il casting e la regia e il montaggio e l’abilità magnetica degli showrunner riabilitavano tutto l’affumicato e il passatista della grande letteratura ormai poco frequentata, realizzando finalmente il mito del “nouveau roman” fuori delle noiosate dell’avanguardia. Fauda, Homeland, Breaking Bad, Slow Horses e altre meraviglie ci avevano riabituato all’idea che si può raccontare una storia, trovare un equilibrio sottile tra significato esplicito delle trame e atmosfera, dramma, spettacolo dell’interiorità e della psicologia, dialoghi eccitanti e ironici, sentimenti e idee, umanità e politica, senza bisogno di messaggi, narrare senza la “narrazione”.
Ora si regredisce nel grottesco, che è sempre una rimescolatura di risaputo, di banale, di sciattamente convenzionale, tutte le cose che Tomasi e don Fabrizio avevano in uggia quando quel testo fu respinto di malagrazia da Mondadori e Einaudi, dal presuntuoso Elio Vittorini e dai suoi consulenti nemici dell’oleografia risorgimentale, poveretti, per poi essere pubblicato e letto da decine di milioni di persone in tutto il mondo su suggerimento di uno scrittore bandito dalla conventicola dei “moderni”, Giorgio Bassani, la Liala incriminata dal Gruppo 63 di piccola memoria, con l’aiuto di una lettrice di talento come Elena Croce.
Del romanzo tradito e inconsapevolmente irriso da legioni dogmatiche del progresso, gli antenati della cancel culture, poi sepolto dalla goffaggine seriale che lo ha addizionato con tutto l’inessenziale e l’esteriore scartato con fastidio metafisico da un vecchio aristocratico spiantato e scettico, non vale nemmeno la pena di parlare. Bisogna solo spengere la tv e rileggerlo. Ci si accorgerà che la passione per le storie a puntate volgarizzate e mutilate e infarcite di tonterias è una delle tante passioni tristi del tempo e che la storia di un’anima vocata alla vita e alla morte in parti eguali, e il suo intreccio interiore con i fatti e le permanenze di una Oleografia storica nazionale e universale, con la docilità delle stelle ai calcoli di chi le osserva e la oscena e riluttante vicinanza della folla a chi se ne trova impaniato, non è “trasponibile” nel sottoconsumo sottoculturale, deve restare consegnata a un grande e misterioso libro.
Una chiave modernista per rileggere il capolavoro che è il Gattopardo, posto che non lo si lasci passare con l’alabarda di una cattiva regia, però c’è. Tutti i santi giorni in tutti i siti della pornoecologia ci si dice godendo che la fine è vicina, che il sole infuoca campi e città e borghi, arde, brucia la terra, e se piove è pur sempre colpa del sole, del riscaldamento globale e particolare, del clima e del meteo, perché le statistiche non mentono, almeno sulla scala del periodo dal quale hanno cominciato a elaborarle. Ora tutti sappiamo che il Gattopardo fu scritto verso fine degli anni Cinquanta e pubblicato un anno dopo la morte del suo autore, e tutti sappiamo che le avventure spirituali e goderecce di Palermo e Donnafugata si riferiscono all’Italia in via di unificazione, ruotano intorno all’Unità e alla nascita del Regno, il 1861. Bene. Non sto qui a fare citazioni, i lettori volenterosi le troveranno da sé, ma il Gattopardo è un libro sul clima siciliano, sulle arsure che immobilizzano, che stancano, che ottundono, che mescolano il bello e l’atroce nell’inferno della canicola, per sboccare poi in piogge torrenziali e altrettanto infernali della luce che le precede e connota. E’ il romanzo del nostro clima caldo, afoso, snervante, insopportabile e mediterraneo, è il racconto civile, amoroso, triste e sornione, di come siamo stati fatti, plasmati, intuiti, condizionati e rappresentati da una natura canicolare che ci ha sempre prevaricati, allarmati e prostrati. Se proprio volete sapere qualcosa in più delle statistiche climatiche, se volete una testimonianza attualissima di come eravamo e siamo sempre stati, sospesi tra atroce calura, siccità e foga dello scatenamento del cielo autunnale, lasciate passare il Gattopardo, perbacco, come sublime testimonianza dell’eternità climatica.