
(foto LaPresse)
un girotondo
La nuova architettura allo specchio
La generazione che, nei primi anni Duemila, si apprestava a rompere il duopolio Piano-Fuksas è diventata grande ed è uscita dalla torre d’avorio. I rischi che incontra oggi, la domanda pubblica scadente, le opere che resteranno
Sono passati vent’anni dall’inchiesta del Sole 24 Ore e del settimanale Edilizia e Territorio sulla nuova generazione dell’architettura italiana, una rassegna dei migliori talenti trentenni e quarantenni di allora. Si cominciò a parlare allora di studi e architetti come Mario Cucinella, Labics, Nemesi, Park Associati, il T-Studio di Guendalina Salimei, Marco Casamonti con Archea, C+S, Più Arch, 5+1, solo per citare alcuni di quelli che oggi sono noti a un pubblico più vasto per le loro opere in Italia e fuori. Da quelle interviste emerse l’idea che a quella generazione spettasse il compito di tre rotture storiche.
Anzitutto, la rottura del ventennale duopolio Piano-Fuksas, i campioni dell’architettura realizzata in patria e all’estero, che rischiava di fare ancora da tappo a giovani progettisti impegnati nella ricerca di un’architettura di qualità capace di far passare i valori di sostenibilità, spazio pubblico, impegno culturale e sociale. Una rottura necessaria senza negare che proprio quei due maestri avevano tracciato la strada giusta del fare – e fare bene – dal Beaubourg alla Biennale “Less Aesthetics, More Ethics” del 2000.
Il secondo compito storico di quella generazione era il superamento della scissione fra professione e Accademia. O, se si preferisce, la resa dei conti con un certo snobismo intellettuale dell’Accademia, sempre ostile al mercato e al “fare” del lavoro professionale, considerati figli di un dio minore. Anche qui maestri da contrastare e rinnegare: il centro di questo dominio culturale dell’Accademia era Roma e il dominus del pensiero accademico era Franco Purini, ordinario alla Sapienza.
“Si è formato un gruppone di serie A. Un centinaio di studi testimoniano un’ottima qualità architettonica diffusa, nonostante in Italia si continui a costruire poco. Dispiace però che prevalga la paura di sbagliare e che pochissimi siano disposti a proporre un progetto davvero originale” (Prestinenza Puglisi)
La terza rottura atteneva più al cambiamento di posa dell’architetto: implicava l’uscita definitiva dalla “torre d’avorio” della corporazione, del linguaggio identitario, della convinzione che stare su Casabella e Domus fosse sempre meglio di un’intervista sul Corriere della Sera. Qui la posta in palio era la creazione di un rapporto diretto con le tv, i giornali, l’economia, il mercato, le imprese, le industrie, i costruttori, i developer immobiliari. E anche il confronto aperto con i cittadini, percorrendo strumenti in Italia poco praticati come la progettazione partecipata, i concorsi di architettura e il débat public.
L’inchiesta giornalistica di allora – firmata con Paola Pierotti, in collaborazione con il critico di architettura “zeviano” Luigi Prestinenza Puglisi – consente oggi di capire quali rotture siano effettivamente avvenute e di tracciare un bilancio della generazione dei cinquantenni e sessantenni di oggi.
“Si è formato un gruppone di serie A – dice Prestinenza Puglisi – composto da molti di quelli che avevamo individuato venti anni fa e da nuovi ingressi. Non è difficile mettere insieme un centinaio di studi che testimoniano un’ottima qualità architettonica diffusa. Studi che vivono bene nonostante in Italia si continui a costruire poco. Dispiace però che prevalga la paura di sbagliare e che pochissimi siano disposti a rischiare per proporre un progetto davvero originale. Si è imposto uno stile milanese essenziale, piacevole che fa cose belle, poveramente belle”. Se si chiede a LPP di proporre le tre opere che caratterizzano questo ventennio trascorso, lui ne indica inizialmente due: il Bosco verticale di Stefano Boeri e la cantina Antinori dello studio Archea. La motivazione di questa scelta è interessante: “Sono due opere – dice il critico – che sembrano risolvere, almeno fino a un certo punto, due grandi contraddizioni dei nostri tempi: vogliamo sempre più ecologia ma vogliamo sempre più costruire; vogliamo una capacità di dialogo con il paesaggio e l’opera ipogea rispetta questo obiettivo, ma ci dimentichiamo di quanti metri cubi di ferro e di cemento sono serviti per realizzare queste opere. Il loro compito, in fondo, è quello di aiutarci a risolvere le nostre angosce”. La terza opera scelta da LPP è invece quella che lui considera la più autentica e originale, realizzata da un architetto “fuori dai giri”: è la Casa di confine di Simone Subissati.
Milano centro di tutte le cose? Lo pensa anche Mario Cucinella, che ha cominciato con Renzo Piano a Genova e Parigi, prima di aprire il suo studio a Bologna e Milano, leader, per carisma, realizzazioni e fatturati, di quel gruppone di architetti partiti nel 2000. “In venti anni – racconta Cucinella – sono successe tante cose e certamente abbiamo superato quella fase degli anni 90 in cui sembrava che in Italia ci fossero solo due architetti: oggi esiste un parterre ampio di buoni architetti della mia generazione e di quelle più giovani. L’Italia non ama l’architettura, ma stavolta ha inciso molto la crescita di una domanda privata di qualità architettonica. Milano è stata terra di grandi opportunità per tutti noi. I developer immobiliari, anche quelli più aggressivi, hanno cominciato a realizzare che un edificio di buona architettura si vendeva meglio”.
Ma il grande assente in questi anni è stato un attore che in tutti i paesi evoluti risulta decisivo per realizzare opere e consolidare un mercato di qualità dell’architettura: la domanda pubblica. “La macchina pubblica – dice Cucinella – è rimasta molto indietro: purtroppo non ha lo strumento intellettuale, non ha la cultura per fare un salto, con commissioni di concorso spesso non all’altezza. Ed è perennemente imbrigliata da regole che premiano gli sconti di prezzo più che il buon progetto. Il codice degli appalti ripete all’infinito questi errori, anche quando ci sarebbe l’intenzione di fare le cose al meglio”. Ci sono eccezioni? “In questo momento vedo uno sforzo del Demanio che sta lanciando gare in cui si sforza di specificare un po’ meglio la qualità dell’architettura che vuole. Per il resto ci sono cose episodiche, come un ottimo bando per l’ospedale di Cremona. Una grande delusione è stata la buona scuola che pure era partita con ottime intenzioni. Vedo segni di rinascita in alcune città, a Palermo e Bologna, aspettiamo di capire se parte Roma, ma il livello generale del settore pubblico resta sconfortante”.
Per Cucinella il rischio più grave per il futuro è un mercato dell’architettura dominato “dalla cultura delle immagini su Instagram, dal greenwashing sui temi della sostenibilità ambientale ed energetica, dalle parole vuote sulla rigenerazione urbana che ancora non abbiamo capito cosa è, chi la fa e come”. Anche per chi cerca fortuna all’estero non è facile. “Non è come in Italia, all’estero la competizione è esasperata, si compete con architetti che, alla mia età o anche più giovani, hanno costruito tantissimo. Bisogna essere molto attrezzati sul talento per poter competere con macchine del genere”.
Quanto alle opere migliori del ventennio passato, l’unica cosa che si riesce a far dire a Cucinella è l’apprezzamento per la Cantina Antinori di Casamonti. Fra le sue realizzazioni segnala il progetto di recupero del Museo Rovati. Del Bosco verticale dice che “è un bellissimo edificio, soprattutto la vista da dentro, ma l’importante, per tutti, è non caricarlo di significati di sostenibilità che non ha”. La sostenibilità ambientale ed energetica – allarga il discorso Cucinella – “è un tema complesso e difficile, bisogna attuarlo fino in fondo, non come certi developer che partono con enfasi e poi si fermano a metà strada per stare nei costi”.
Il rischio più grave per il futuro è un mercato dell’architettura dominato “dalla cultura delle immagini su Instagram, dal greenwashing sui temi della sostenibilità ambientale ed energetica” (Cucinella). “Il Pnrr è stato una buona cosa, ha portato lavoro a tutti. Quella spinta, però, ormai è esaurita” (Clemente)
Un occhio attento sull’evoluzione dell’architettura italiana continua ad averlo Paola Pierotti, che dieci anni fa ha fondato la società PPAN, per costruire servizi/soluzioni sul rapporto tra l’architettura e il mercato, la cultura del progetto e la rigenerazione delle città. “Molti degli studi che avevamo individuato venti anni fa – dice Pierotti - sono ancora vivi, alcuni sono rimasti insieme, altri si sono divisi. Ma non hanno conquistato il mercato. In quegli anni pensavamo che l’architettura avesse la qualità per prendersi una bella fetta del mercato della progettazione. Ma questo non è avvenuto: l’architettura resta una quota marginale di quel mercato, dove si sono affermate invece le componenti dell’ingegneria e della tecnologia, come probabilmente ci dirà meglio la Biennale di Carlo Ratti. Molti di quegli architetti, con poche eccezioni, hanno preferito mantenere una dimensione artigianale, curatoriale, autoriale. Non hanno voluto o non sono stati capaci di sposarsi con queste due componenti, anche qui con poche eccezioni. Hanno guardato più alla firma del progetto che al suo valore economico”.
Stessa domanda sulle tre opere di questi venti anni. E anche Pierotti indica la Cantina Antinori come il miglior lavoro di quella generazione. Pierotti segnala, poi, due studi di architettura più giovani. Il primo è Demogo, venuto alla ribalta dal Veneto per il concorso indetto dalla sezione cadorina del Club Alpino Italiano nel 2015, vinto con “una architettura minuta ed estrema”, il bivacco Fanton, “un guscio protettivo in quota, un volume sbozzato in pendenza che abita la Sella della Marmarola sulle Dolomiti, uno spazio sconfinato a 2.667 metri”. L’altro studio è Park Associati, Architetto dell’anno nel 2024. “Qui – dice Pierotti - vince esattamente la scelta che, dicevo, è mancata a tanti altri: associare una ottima architettura alla capacità e alla volontà di generare valore economico”.
Maria Claudia Clemente è una degli architetti intervistati venti anni fa, fondatrice di Labics: è ottimista sul bilancio di questi venti anni – “la mia generazione ormai ce l’ha fatta” – molto meno sul presente e sul futuro. Ripete più volte che “il 2025 sarà un anno molto difficile” ed esprime l’incertezza e l’angoscia di un intero mondo, gli architetti, certo, ma anche tutto il resto della filiera costruttiva. “Il Pnrr è stato una buona cosa – dice – ha portato lavoro a tutti. Quella spinta, però, ormai è esaurita. Ora abbiamo tanti cantieri, ma pochi progetti e uno studio ha bisogno di trovare continuamente progetti nuovi”.
Non mancano le difficoltà anche nella fase realizzativa. “Il cantiere è un luogo difficile e richiede un lavoro lungo, bisogna essere ostinati per realizzare quello che il progetto dice. C’è tanta impreparazione. Le regole del Pnrr e del codice degli appalti hanno introdotto un’aberrazione, la rottura dell’unitarietà del processo progettuale. Molto grave: tu fai un progetto, che oggi si chiama progetto di fattibilità tecnico-economica, ci metti la firma, ma poi il progetto esecutivo lo fa un altro progettista insieme all’impresa che dovrà fare i lavori. Spesso cambiano, tolgono, guardano all’aspetto economico più che all’integrità del progetto. Non si rispettano i principi elementari della professione, come per esempio assegnare la direzione lavori o almeno una direzione artistica a chi ha firmato il progetto”.
Si torna quindi sul tema della domanda pubblica scadente. “La qualità dell’architettura di un paese la fa la domanda pubblica. Il privato ha sempre in testa altre priorità, i rendimenti economici, anche quando alza il livello della qualità della propria domanda. Se l’opera non li garantisce, si ferma, come è successo con la nostra torre a Milano”. Clemente concorda che un tentativo di migliorare la domanda pubblica di architettura arriva in questa stagione dal Demanio. “Un concorso come quello pubblicato qualche giorno fa per Roma vedrà partecipare decine di studi, perché ormai di concorsi veri se ne fanno pochissimi. Abbiamo fatto un passo indietro rispetto a qualche anno fa, quando ci fu una stagione con numerosi concorsi”.
La tentazione del mercato estero. “Stiamo facendo concorsi in Germania, in Francia, ne abbiamo fatto uno a Praga. Ora che abbiamo lavorato parecchio e abbiamo un curriculum più forte, possiamo farli con facilità”. Clemente conferma il plebiscito per la cantina Antinori: è proprio l’unica opera che mette d’accordo tutti. Poi, la soddisfazione per il superamento della frattura fra Università e professione. “La nostra generazione – dice – ha scardinato il muro di snobismo intellettuale che in Italia ha tenuto separati a lungo la professione e l’insegnamento all’Università. Non era ben vista la professione, lo percepivamo fin da studenti. Abbiamo sovvertito questa idea, tutti noi abbiamo scelto di fare anzitutto la professione di architetto, di lasciare un segno con i nostri progetti, e poi facciamo i professori a tempo determinato”.