Le biblioteche italiane faticano a essere vere “piazze del sapere”

Marco Gambaro

Orari limitati, scarsa innovazione e poche risorse. Troppo chiuse, troppo elitarie. Solo il 10 per cento degli italiani le frequenta, con forte divario sociale e culturale. Urge ripartire dai bisogni dell'utenza e dai servizi offerti. Idee a confronto a Milano

Le biblioteche pubbliche occupano un posto particolare nelle nostre società, non solo depositi di libri, ma punto di riferimento delle città. Come la magnifica biblioteca di Tromsø, i cui archi metallici incastonano le vetrate che dominano la città del nord della Norvegia; oppure la biblioteca di Guangzhou, con i suoi 4 milioni di libri e i 5000 computer,  progetto avveniristico dei giapponesi della Nikken Sekkei,  in cui di fianco all’ingresso c’è un dispenser con un ben pubblicizzato servizio automatizzato di prestito aperto 24 ore. Ma anche istituzioni come la New York City Library, punto di passaggio risolutivo in tanti film di impegno civile o, più in piccolo, il progetto iRead, che prevede un autobus itinerante che porta in giro 13mila libri per prestarli nei sobborghi di Lagos in Nigeria. La biblioteca è un presidio culturale, una piazza del sapere – come scrive Antonella Agnoli – centro di riflessione e condivisione, nodo tra istituzioni culturali. In Italia, però, è una  piazza un po’ vuota e meno aperta di quanto dovrebbe.


Dopo le chiusure della pandemia  gli italiani che si sono recati in biblioteca almeno una volta negli ultimi 12 mesi sono il 10 per cento, un valore che sarebbe già triste in sé, ma che è drammatico per un’istituzione che vuole essere universalistica. La dinamica è simile a quella di altri beni culturali che hanno subito un calo strutturale favorito da processi di sostituzione già esistenti. Nel 2022, secondo Istat, il 49 per cento degli italiani è andato almeno una volta al cinema, o teatro, a concerti o discoteche, mentre il valore era del 64 per cento nel 2019. Le  sale cinematografiche si sono ormai stabilizzate a 70 milioni di biglietti l’anno, mentre negli anni tra il 2016 e il 2019 oscillavano attorno ai 92 milioni. Tanto vale allora guardare agli anni pre pandemia, quando le biblioteche pubbliche erano frequentate annualmente  dal 15 per cento degli italiani, un numero sempre molto basso e comunque meno della metà rispetto a molti paesi europei. Questi pochi utenti sono spesso la fascia più colta, ricca e istruita della popolazione.


Dai dati elementari della ricerca Istat “Aspetti della vita quotidiana”, emerge come, mentre va in biblioteca il 27 per cento dei laureati, lo fa solo il 2 per cento delle persone con licenza elementare; questo distacco permane per tutte le fasce di età adulte, mentre viene mitigato nelle fasce d’età in cui si frequenta la scuola dell’obbligo. Il 44 per cento delle persone che leggono oltre 10 libri va in biblioteca, mentre tra quelli che leggono 1-2 libri  l’anno solo il 17 per cento va in biblioteca. Tra quelli che lavorano va in biblioteca il 17 per cento di quadri e impiegati (più di imprenditori e dirigenti), ma solo il 6 per cento tra gli operai e l’8 per cento di co.co.pro e partite iva. Un servizio, insomma, frequentato prevalentemente da chi già legge, da quelli con più scolarità e dalle classi medio alte, e che sembra dunque mancare i suoi obiettivi dichiarati di inclusione di chi ha meno possibilità.


Le ragioni della scarsa partecipazione vengono prevalentemente individuate dagli addetti ai lavori nelle condizioni della domanda (in Italia si legge troppo poco) e nella mancanza di risorse (vale sempre per tutti i servizi, più risorse non fanno mai male). La prima ragione ha qualche sostanza, ma non può spiegare la grande differenza con gli altri paesi, anche perché in teoria le biblioteche sono nate e sono finanziate esattamente per superarla. La seconda ragione è più discutibile: secondo i dati di Public Libraries 2030, i numeri di biblioteche e di personale addetto in Germania e Spagna sono paragonabili all’Italia, ma gli indicatori di utilizzo sono molto più alti. Forse bisogna guardare anche all’offerta, al modo in cui cui sono organizzate le biblioteche, all’atteggiamento dei bibliotecari nei confronti degli utenti, ai servizi che si offrono. Sono buoni argomenti per il convegno “Biblioteche Oltre”, che si svolge il 12 e 13 marzo a Milano e riunisce da trent’anni i bibliotecari italiani.


In Italia, ad esempio, allargare gli orari di apertura è possibile solo trovando personale aggiuntivo (cooperative, collaboratori, volontari). Inoltre, i bibliotecari sono spesso legati a competenze e mansionari definiti decine di anni fa e che non sempre sono allineati con l’evoluzione multiservizio che le biblioteche vorrebbero intraprendere. All’origine dell’apertura di una nuova biblioteca deve esserci un sindaco intraprendente e ben connesso, in grado di ottenere grandi fondi europei per ristrutturare un vecchio palazzo storico o costruirne uno nuovo. Si fa il lavoro edilizio, senza nessuna analisi sui fabbisogni della domanda, si trasferiscono gli addetti della vecchia biblioteca con gli stessi processi, le stesse mansioni e lo stesso modo di lavorare, e finalmente si apre, generalmente con poco budget per la comunicazione con i cittadini e per i nuovi servizi e nessun progetto su come riconfigurare il servizio partendo dagli utenti.


C’è una vecchia storia che illustra bene le differenze e che è girata per anni nei convegni dei bibliotecari tra lodi e invidie, quella degli Idea Store di Londra, che hanno lanciato oltre vent’anni fa un nuovo modello di biblioteca con iniziative, spettacoli, corsi, nuovi servizi e una presentazione frizzante e coinvolgente, insomma un bel modello da seguire.


Il punto di partenza era stato la verifica, attraverso le ricerche, di un basso livello di frequenza delle biblioteche del quartiere di Tower Hamlets, che il direttore di allora aveva definito come “il peggior servizio bibliotecario di tutta Londra”. Nei nuovi Idea Store (grandi biblioteche da 1200-1500 metri quadrati) lavoravano mediamente 4 addetti a tempo pieno, che tenevano aperte le biblioteche tutte le sere fino alle 22. In una biblioteca italiana di quelle dimensioni lavorano in media dai 15 ai 20 bibliotecari e generalmente riuscire a fare l’apertura serale è una fatica estenuante. Non è solo un problema di produttività. Negli Idea Store tutti i servizi sono prodotti centralmente, dalla  costruzione dell’assortimento, alla catalogazione fino all’organizzazione di tutte le iniziative. Gli addetti locali sono totalmente focalizzati, sia come attenzione che come competenze richieste, nella relazione con gli utenti. 


Ma le nostre biblioteche sono ancora tutte retailer indipendenti, dove quasi tutto viene fatto localmente e con manodopera qualificata per fare l’esperto bibliografico, salvo qualche consorzio per alcune attività.


Insomma, forse guardare anche dalla parte dell’offerta, a come sono organizzate le biblioteche e i bibliotecari, aiuterebbe a spiegare perché i cittadini usano così poco un servizio costoso da produrre e che potrebbe  essere prezioso.

Di più su questi argomenti: