FACCE DISPARI

Francesco Canessa, una vita tra i ricordi di Caruso e il Settecento napoletano

Francesco Palmieri

Una vita per la lirica. L’ex sovrintendente racconta aneddoti, battaglie e il legame di famiglia con il grande tenore napoletano. Dall’infanzia a Capri alla direzione dell San Carlo. “Napoli si dimentica della sua musica, ma il teatro non può farlo” 

Su una cosa, l’età, Francesco Canessa non sembra credibile. La verve e la memoria smentiscono l’anagrafe, che ne data la nascita al 19 agosto 1927. Partorito a Capri, formatosi a Milano, è stato critico, saggista, organizzatore musicale e per un lunghissimo periodo (lo calcola in 19 anni e quattro mesi) sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli. La sua famiglia fu in rapporti d’intimità con Enrico Caruso e gli s’imparentò: la sorella minore del padre di Canessa sposò Enrico jr detto “Mimmi”, secondogenito del tenore.

L’11 marzo Canessa ha inaugurato all’Emeroteca Tucci di Napoli una mostra sull’artista considerato “il grande rivale” di Caruso: Fernando De Lucia. All’iniziativa, caldeggiata dal presidente dell’Emeroteca Salvatore Maffei, è intervenuto Michael Henstock, autore dell’unica biografia esistente sul cantante, pubblicata nel 1990 e mai tradotta in italiano.

 

Furono davvero nemici Caruso e De Lucia?

Favole. Ai funerali di Caruso fu proprio De Lucia a eseguire in chiesa la “Preghiera” di Stradella. Caruso gli premorì ma era più giovane di tredici anni e tra loro ci fu un semplice passaggio di testimone generazionale: dal “neobelcantismo” al nuovo stile verista, che finì per prevalere. Non è un caso che ciò avvenne tra due cantanti napoletani, perché il verismo è maturato nella città: Leoncavallo, Cilea, Giordano, Alfano furono allievi del Conservatorio di San Pietro a Majella.

 

Caruso resta molto più popolare di De Lucia.

Perché se n’andò in America e intercettò l’innovazione rivoluzionaria della discografia, che portò la musica dai teatri lirici dentro le case della gente. Solo con “Vesti la giubba” vendette un milione di copie e diventò ricchissimo. Anche De Lucia incise, ma per etichette che non avevano il peso dell’industria statunitense.

 

La sua famiglia come conobbe Caruso?

Mio nonno Cesare e i fratelli Amedeo ed Ercole erano titolari di una celebre ditta antiquaria con sedi a Napoli, Parigi e New York. Caruso frequentando il negozio americano strinse amicizia e sviluppò la passione per il collezionismo, al punto di diventare un grande esperto di numismatica. Quando tornava in patria, d’estate, i Canessa lo ospitavano a Villa Mezzomonte a Capri. Così mia zia Elena, provetta arpista, conobbe e sposò Enrico jr ed ebbero due figli: Enrico Cesare, mio cugino prediletto, e Vladimiro.

 

Non si dedicarono alla musica?

No, Enrico Cesare fu perito industriale e si stabilì a Livorno. Vladimiro purtroppo nacque sordomuto, ma diventò un bravissimo orologiaio.

 

Com’è stata la sua iniziazione alla lirica?

Avevamo un palco al San Carlo e mi ci portavano da bambino. La prima avventura l’ho vissuta però da ragazzo, durante l’occupazione alleata, quando fui reclutato come comparsa negli spettacoli per le truppe. L’appalto era affidato a tale cavalier Spizzica, e tra le opere più rappresentate c’era l’”Aida” dove facevo il vice comandante degli ufficiali egiziani. Poiché Spizzica non ci versò la paga organizzai una protesta delle comparse, forse la prima nella storia di un teatro lirico: portavamo Radamès in scena su un baldacchino e ci accordammo per non farcelo scendere. Rammento lo sguardo smarrito del direttore d’orchestra, Franco Capuana, che non capiva cos’era successo e governò con difficoltà il finale del secondo atto. Quando diventai sovrintendente potei vantarmi di avere cominciato la carriera dal basso.

 

Cosa ricorda con maggior piacere della sua sovrintendenza?

La prima cosa fu il recupero delle grandi voci. Pavarotti come tenore d’opera finì per esibirsi solo in tre teatri: all’Opera di Vienna, al Metropolitan e al San Carlo. La seconda cosa fu la riscoperta con Roberto De Simone dei tesori del Settecento napoletano, con un successo strepitoso. “Il Flaminio” di Pergolesi, dopo l’”Arlecchino servitore di due padroni” di Strehler, è stato lo spettacolo italiano che ha girato di più all’estero. Fu possibile metterlo in scena grazie al maestro Marcello Panni, che riuscì a ritrovare la partitura originale completa nell’abbazia di Montecassino.

 

La soddisfa l’attuale conduzione del San Carlo?

Ho apprezzato il nuovo ritorno delle grandi voci, che mancavano da quando c’ero io. Purtroppo però il sovrintendente Stéphane Lissner ha trascurato l’Opera e la cultura napoletana, che non è una scelta facoltativa ma un obbligo culturale cui quel teatro non si può sottrarre. Quando lavorai con Riccardo Muti al Festival di Salisburgo curammo per cinque anni una sezione dedicata alla musica napoletana con la presentazione di capolavori anche di genere sacro. E riuscimmo fortunatamente a incidere dal vivo la “Missa Defunctorum” di Paisiello, che poi è ripiombata nel dimenticatoio. Sarebbe auspicabile un Festival del Settecento napoletano, ma qualsiasi manifestazione per affermarsi ha bisogno di anni. Non ci si può accontentare di qualche spezzatino, è necessario un indirizzo costante. Ho cominciato a Milano il lavoro musicale e ho sempre pensato che la differenza tra la Scala e il San Carlo stia nella città: Milano è orgogliosa della Scala, Napoli se ne frega del San Carlo. Il perché non l’ho mai capito.

 

Quale musica ascolta?

Ora sono tornato alla passione giovanile: la musica da camera. Frequento qualche concerto, ma al San Carlo non vado più.

 

Come promuoverebbe la classica tra i giovani?

Ogni generazione ha la sua musica. Se un diciottenne ama il rap è inutile forzarlo ad apprezzare la lirica o la sinfonica. Magari verso la mezz’età, se il suo gusto si è evoluto, comincerà ad ascoltare i quartetti di Beethoven.

 

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