Dante Gabriel Rossetti, “Giotto dipinge il ritratto di Dante”, circa 1859 

I cento volti di Dante. Da Botticelli alla grafica 3D. Ma i software non battono la fantasia

Quanto si divertono i ricercatori a ricostruire l’aspetto del Sommo Poeta a partire dalle ossa. Non è meglio immaginarlo mentre lo leggiamo, coltivando una “corrispondenza d’amorosi sensi”?

Non dirai anche tu, hypocrite lecteur, che del Sommo Poeta ti bastano i versi, che non importa se fosse alto o basso, grasso o magro, se avesse gli occhi chiari oppure scuri. Né dirai che quando lo studiasti (o lo patisti) a scuola, quando ne risenti il nome o lo rileggi, potesti e puoi evitare di pensarne il viso: dal profilo aquilino e spigoloso come lo volle Botticelli, o l’austero e virile dipinto da Giotto, o a figura intera con la Commedia in mano immaginato da Domenico di Michelino per il Duomo di Firenze. Per non dire di altre decine di raffigurazioni, delle statue, persino dei fumetti in cui è effigiato quasi sempre con il lucco rosso incoronato dall’alloro che gli cinge il cappuccio.


Un padre ha sempre bisogno di avere una faccia e chi non conobbe il suo sa che tra i crucci maggiori è ignorarne il viso, tra i maggiori diletti fantasticarne uno e tra gli ardenti desideri rintracciarne almeno la fotografia. Per il padre della lingua e di una coscienza nazionale cui non sfugge persino chi lo ignora, i numerosi volti convenzionali di cui ci accontentammo – tutti diversi ma abbastanza somiglianti – sono adesso aboliti e rimodellati con singolare frequenza. Non passa tempo dall’ultima ricostruzione “scientifica” che un altro team di ricercatori, con metodologie diverse ma sempre “d’avanguardia”, si guadagna i titoli di giornale per un ultimativo “vero volto” di Dante plasmato con i software digitali in suggestive immagini 3D, che hanno sostituito la plastilina e fanno puntualmente il giro del mondo.

  

L’ultima faccia al Poeta l’ha rifatta una équipe dell’Università federale brasiliana di Uberlândia. Sorpresa: ha il naso gibboso ma non più aquilino

  
L’ultima faccia al Poeta l’ha rifatta una équipe dell’Università federale brasiliana di Uberlândia, diretta dall’esperto di grafica Cícero Moraes e dal docente di odontologia Thiago Beaini. Sorpresa: Dante ha il naso gibboso ma non più aquilino, e un’espressione che, quando Focus rilanciò l’articolo su Facebook, suscitò commenti sapidi come il seguente: “Uno con una faccia così, oggi, potrebbe fare solo il carrozziere in un’officina abusiva di periferia. Per fortuna è vissuto in un’epoca in cui veniva apprezzata la cultura anziché l’aspetto fisico”. Conviene allora retrocedere al penultimo “vero volto” datato 2021, rimodellato stavolta con i criteri dell’antropologia forense da Chantal Milani, consulente giudiziaria esperta di riconoscimento facciale, in collaborazione con il professore bolognese Giorgio Gruppioni: qui il Poeta proposto in duplice versione, con barba e senza, conserva il naso proverbiale e ha poco a che vedere con la raffigurazione brasiliana, anche per certa malinconica espressione conseguente all’asperità dei tratti.

       
Eppure tutte le ricostruzioni discendono dalle stesse misurazioni sul cranio e sullo scheletro dell’Alighieri, ritrovati fortunosamente in una cassetta lignea a Ravenna il 27 maggio 1865 nei pressi dell’urna marmorea da cui le ossa furono segretamente sottratte e occultate per secoli dai frati francescani timorosi che i fiorentini se le riprendessero, cosa che stavano per fare nel 1519 quando ottennero il consenso di Papa Leone X. Fu però soltanto con un’accurata ricognizione eseguita nel 1921 da due luminari dell’antropologia, Fabio Frassetto e Giuseppe Sergi, che si procedette a rilievi attendibili e si provò a ridare un volto a Dante, benché mancassero la mandibola e tutti i denti. La ricostruzione, per Frassetto, divenne quasi un’ossessione: nel 1933 pubblicò i risultati dei suoi studi nel libro Dantis ossa ricorrendo allo scultore bolognese Antonio Borghesani per rimodellare il viso, prendendo ispirazione da un ritratto del Codice Palatino che più s’approssimava alla forma del teschio. Fu l’esordio dei tanti volti di Dante più o meno lumeggiati dalla scienza. Com’era la versione di Frassetto? Egli stesso definì quella faccia “adusta e severa”, dai “grandi occhi pensosi, resi un po’ grevi dal peso delle palpebre”, “labbra chiuse e carnose con l’espressione di quella coscienza di superiorità che lo dominava”, e poi il naso affilato e un gran pomo d’Adamo quali “segni indubbi della virilità sua che fu sì grande”. La scienza lasciava posto al sentimento: lo studioso derogò a se stesso ben sapendo che gli “spessori molli” di cui rivestiva il teschio soggiacevano a un affettuoso arbitrio e né la luce degli occhi né la linea delle labbra, tampoco il maschio pomo erano ricavabili da un obiettivo esame di quel cranio “dolicocefalo della razza mediterranea”. Sulla sua operazione il professore propose, come lo chiameremmo oggi, un docufilm all’Istituto Luce, al ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini e quindi al Cineguf di Ravenna e di Bologna. Ma quando fu depositato il trattamento cinematografico “con accenno di sceneggiatura”, l’Italia stava entrando in guerra. E nulla se ne fece.

  

Il naso affilato e un gran pomo d’Adamo quali “segni indubbi della virilità sua che fu sì grande”, secondo Frassetto, antropologo di inizio ’900

  
Si ricorse nel 2006 a quel tesoretto di dati antropologici, proprio nell’ateneo dove Frassetto aveva insegnato, per rielaborare con più accuratezza il volto di Dante grazie a un software di modellazione virtuale e alla collaborazione dell’Università di Pisa: ne sortì tutt’altra faccia da quella celebrata nel 1933 e da quelle più sopra menzionate. Avverte il professor Gruppioni, già erede di Frassetto nella cattedra di Antropologia bolognese e partecipe anche dell’impresa del 2006, che ogni ricostruzione lascia “una non trascurabile componente di soggettività in una pratica che unisce scienza, tecnologia e arte”. Nessun compasso e nessun software potranno restituire morfologia e colore degli occhi, forme di naso e bocca, consistenza dei tessuti facciali. Soprattutto non sapremo mai, sottolinea Gruppioni nel libro Dante e i suoi misteri, “se il divino poeta avesse un’espressione del viso severa o bonaria, corrucciata o distesa, pensosa o serena”. E’ un gioco di specchi: noi vediamo i volti antichi come se fossero le facce d’oggi, ma ci manca “l’aere” che loro respirarono, quel quid sicuramente più attingibile dalle opere che lasciarono, come suggerisce Ermanno Cavazzoni nel Manualetto per la prossima vita: “Ho sempre pensato che la libreria che ho in casa sia una riserva di anime vive, che posso prendere, fare sedere con me sul divano, comodi, in intimità, e parlarci”. Lasciar parlare Dante per figurarsene il viso, modellare l’immaginazione che è il nostro software del cuore su quel cranio di speciale capienza (oltre 1.700 cc), dal parietale sinistro più prominente, che pesò grammi 776 senza mandibola e denti, dalle orbite grandi e dal setto nasale deviato a destra, dagli zigomi massicci e dalla faccia piccola rispetto all’ampiezza della fronte. Rivestirlo pure di pelle, ma con quale carnagione?


Nel 2021 sbucò all’attenzione mediatica un singolare ritratto di Dante barbuto del sedicesimo secolo dalla collezione comunale di Orvieto. L’ennesimo “vero volto”. Ma la barba chissà. L’unica descrizione fisica del Sommo è nel Trattatello di Giovanni Boccaccio, che non lo conobbe direttamente ma si avvalse delle testimonianze. Scrive che era di colorito “bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi”, al punto che un giorno passeggiando per Verona alcune donne celiarono sull’incarnato fosco e la peluria attribuendoli ai postumi del viaggio all’Inferno. Se quella barba fosse folta o solamente traccia di non assidua rasatura, o se l’avesse esibita solo in certi periodi della vita, non possiamo sapere. Ipotizziamo, con un certo arbitrio, che non la portasse abitualmente perché troppa attenzione pose ai cambiamenti emozionali riflessi sulle proprie gote. Senza ricordare la Commedia, nella sola Vita nuova si trovano a esempio: “Lo viso mostra lo color del core”; “Elli era tale a veder mio colore, / che facea ragionar di morte altrui”; “E spesse fiate pensando a la morte / venemene un disio tanto soave, / che mi tramuta lo color del viso”. In più alla morte di Beatrice, informa Boccaccio, Dante fu colto da uno stato depressivo che lo ridusse “quasi una cosa salvatica a riguardare”, e “magro, barbuto e quasi tutto trasformato da quello che avanti esser solea”. Segno che in precedenza si radeva, o almeno curava la barba.

  

Boccaccio notò che “in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi”

  
Il vero volto di Dante, quello senza virgolette, risulta cangiante per ciascuno dei suoi “fedeli d’amore”. Il poeta Giuseppe Conte, che gli ha dedicato da ultimo il libro Dante in Love nel 2021, ne fa tornare l’ombra per Firenze e la ritrae “con la barba folta e grigia” che aveva ai cinquantasei anni del trapasso, ma la ricorda “riccia e nera” in gioventù come la videro le testimoni veronesi. E’ una figura coerente al Dante che amava le donne (Boccaccio notò che “in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi”); è il Dante che stilò l’elenco delle sessanta più belle di Firenze, e che Beatrice accusa nel Canto XXXI del Purgatorio perché s’era impelagato con la “pargoletta o altra novità con sì breve uso”; è il Dante che impugnò la lancia cavalcando ventiquattrenne contro i ghibellini d’Arezzo nella battaglia di Campaldino. “E’ lui come lo vedo io, quello di cui mi sono riappropriato tardi, oltrepassando le immagini convenzionali apprese dagli studi scolastici” racconta Conte. “E’ l’uomo che, descritta la carnalità assoluta nell’Inferno, se ne spoglia gradualmente fino all’approdo eroico nel Paradiso, e ci riesce grazie a Beatrice cui deve la salvezza dell’anima. Lei è invece così incorporea da non poterla immaginare. S’immagina Francesca, la peccatrice, ma con Beatrice non ci sono riuscito”. Perché s’è diffusa così tanta voglia di replicare, con gli impossibili criteri dell’oggettività scientifica, la faccia di Dante? “Quando tutto va diventando virtuale, cresce per compensazione l’esigenza di ritrovare l’aspetto fisico, carnale, di un personaggio così grande, anche se a conti fatti gli autori vivono nei loro libri. Sono svaniti nel nulla i potenti del Trecento, compresi quelli che a Dante fecero del male, mentre sentiamo ancora presente non soltanto lui, ma persino i coevi poeti minori”.

Nel 2021 a Orvieto è spuntato un dipinto anonimo risalente al Cinque-Seicento che ritrae un Dante barbuto (Ansa) 
   
Jorge Luis Borges dice di Dante che “ora è un nostro sogno”, forse perché come sostiene T. S. Eliot “ora conosciamo null’altro che l’esperienza del sogno”, mentre abbiamo dismesso l’esperienza visionaria di cui era dotato il Poeta “in quanto visse in un’epoca in cui la gente aveva ancora delle visioni”, fenomeno “ormai relegato a forme di aberrazione o di ignoranza”. La reazione al virtuale montante che ci rosicchia l’immaginale interiore suscita l’impulso di ottenere un “vero” Dante dello stesso nitore materiale con cui lo incontreremmo se fosse inquilino del nostro palazzo. Ed ecco che s’annunciano nuovi modellini: l’odontologa forense Francesca Zangari ha rilevato discrepanze nelle misure prese da Frassetto sul palato e suppone che una nuova riesumazione delle ossa consentirebbe analisi più accurate con gli strumenti attualmente disponibili, senza considerare che l’Università di Dundee in Scozia ha messo a punto un metodo matematico per dedurre le dimensioni della mandibola rispetto al cranio. Né c’è dubbio che l’eventuale analisi del Dna estratto dai resti potrebbe dare ulteriori indicazioni, forse sugli occhi, sulla pelle, sulle patologie.


O forse è meglio, invece di modellare più sofisticati pupazzi, immaginare Dante mentre lo leggiamo coltivando una “corrispondenza d’amorosi sensi”. Questa “celeste dote” foscoliana tanto ci lascerebbe intendere della sua faticata vita per cui alla “matura età” – parole di Boccaccio – egli andava “alquanto curvetto” e si presentava più basso rispetto alla statura giovanile valutata da Frassetto tra un metro e 64 un metro e 66, altezza che per l’epoca era giudicata media. Fu di complessione magra, aveva le clavicole molto sottili e le spalle cadenti. Al momento della morte, probabilmente per la malaria contratta in un’ambasceria da Ravenna a Venezia nel 1321, Dante appariva più vecchio della sua età: basta ricordarsi, quando la nostra mente ne ricattura l’ombra, che nel definitivo esilio da Firenze provò “come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. C’è un tempo, quello degli esuli, che viene percepito interminabile proprio perché non sanno se, quando e come terminerà. Perciò a chi lo conobbe nei suoi ultimi anni il Poeta dovette comunicare un senso di fragilità fisica che rendeva difficile figurarselo cavaliere a Campaldino, benché secondo Gruppioni l’asimmetria sterno-clavicolare e la patologia della colonna vertebrale si possano anche spiegare con le sollecitazioni del rachide dovute alla pratica equestre e all’uso delle armi. Verso la fine, le facoltà vitali di quell’uomo piegato e di scarso appetito (“nel cibo e nel poto fu modestissimo”, conferma Boccaccio) dovettero vieppiù concentrarsi nel viso, nelle espressioni e nello sguardo, sfuggenti a ogni rifacimento antropometrico e concepibili solo dalla sensibilità dei lettori.


“Nessuna ricostruzione forense equivale a una fotografia. C’è una quota variabile di fantasia che può essere colmata solamente grazie alle testimonianze storiche e all’esistenza di ritratti fedeli del personaggio”, spiega la paleopatologa Marielva Torino, docente di Archeoantropologia all’Università Suor Orsola Benincasa, che ha risolto il “giallo” dei resti attribuiti a Giambattista Vico nella chiesa napoletana dei Girolamini appurando che non erano i suoi (Benedetto Croce lo aveva intuito nel 1903 ma non gli avevano creduto). “Non sono contraria alle ricostruzioni perché soddisfano il nostro bisogno di restituire una fisicità alla persona, come asserzione della vita che perdura anche dopo la morte”, aggiunge la studiosa, “tanto che la damnatio memoriae prevedeva la distruzione di ogni effigie del vinto. Al contempo però bisogna essere consapevoli che da un cranio, per giunta privo di mandibola, non ricaveremo mai elementi certi sull’attaccatura dei capelli, sulle cartilagini o su caratteristiche distintive del viso, come per esempio un porro. Solo una maschera funeraria può offrire una riproduzione esatta”. Quelle presunte di Dante sono tante ma senza un attendibile riscontro, a cominciare dalla famosa “maschera del Kirkup” che Frassetto stesso escluse fosse stata ricalcata sul volto del Poeta e su cui rilevò evidenti tracce “della stecca e dello scalpello” dell’ignoto artefice.


Non resta che la mole iconografica dei ritratti cui ciascuno attinge assecondando le proprie suggestioni, dal Botticelli all’olio del Bronzino ai due profili realizzati da Raffaello nella Stanza della Segnatura in Vaticano. Prevarrà il Dante che più s’impresse nella memoria personale, forse per la copertina di un’antologia scolastica o dell’edizione su cui incontrammo la Commedia. “C’è l’esigenza istintiva di dare un volto pure ai personaggi più remoti” commenta Marielva Torino. “Per la mia generazione, per esempio, Ulisse avrà sempre le fattezze dell’attore Bekim Fehmiu e Penelope quelle di Irene Papas, i protagonisti dello sceneggiato televisivo sull’Odissea che andò in onda nel 1968”.

  

La necessità di dargli un volto è comprensibile anche alla luce di “una presenza costante dall’inizio alla fine del viaggio” della Commedia 

  
La moltiplicazione delle facce “è un segno della grande vitalità” del Sommo Poeta secondo lo storico della letteratura Giulio Ferroni. “La necessità di dargli un volto è comprensibile perché della Commedia è sia l’autore sia il protagonista, con una presenza costante dall’inizio alla fine del viaggio. Benché il suo nome sia citato nell’opera una volta sola, quando Beatrice lo rimprovera nel Canto XXX del Purgatorio, noi ne seguiamo continuamente la persona e siamo subito tentati di vederla com’era”. Dante invade la mente di chi legge, spiega Ferroni, “ed è uno dei rari casi in cui l’immaginario acquisisce una forza superiore alla realtà”. E’ certo tuttavia che dargli una parvenza anatomica precisa resterà illusione, “perché è vano il tentativo di superare la distanza storica utilizzando i nostri mezzi di riproduzione”. Non è con i software, dice Ferroni, che ci si può riuscire: “E’ cambiata la nostra percezione della presenza vitale, come è cambiata l’aria che quelle persone respiravano, gli ambienti esterni e gli interni in cui si muovevano”. Spinto dal desiderio di rinvenirne gli scampoli, Ferroni ha visitato i luoghi danteschi raccontandoli nel libro L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia, pubblicato nel 2019. C’è un posto più di ogni altro dove lo abbia avvertito presente? “E’ il più strano e meno noto: la Pietra di Bismantova nell’Appennino reggiano, che Dante prese a paragone per descrivere il Monte del Purgatorio. La sua presenza è percepibile anche nella salita a San Miniato al Monte forse più che a Firenze, dove possiamo immaginarlo meglio solo dentro il Battistero di San Giovanni, però tra la confusionaria folla dei turisti”. L’importante è andarci, coltivare quella fisicità che auspica anche Conte. “E’ una dimensione che stiamo pericolosamente perdendo”, ammonisce Ferroni: “Dobbiamo mantenere la materialità dell’esperienza, non serve un tour virtuale dei luoghi perché il pc può restituirne solo pallida eco”.

  

Ci sono studi, e a non citare il nome degli autori si fa loro un favore, che deducono persino patologie neurologiche: Dante epilettico e narcolettico

  
La capacità visionaria evocata da Eliot non s’alimenta dallo schermo ed è disposizione ben diversa dalla visionarietà di alcuni “ricostruttori” di Dante, perché c’è chi oltre al “vero volto” ha dedotto, dalla Commedia, persino presunte patologie neurologiche. Esistono, e a non citare il nome degli autori si rende loro un favore, articoli accademici che qualificano il Poeta come possibile epilettico o probabile narcolettico per le tachicardie, gli stati d’ansia, i ripetuti svenimenti nel percorso d’oltretomba. Sarebbe per esempio un sintomo associato alle crisi narcolettiche quel “tremar le vene e i polsi” al cospetto della lupa (nel 2016 uno studio, Dante Alighieri’s narcolepsy, è uscito pure su Lancet Neurology). Sarebbe pure interessante verificare la reazione degli estensori della diagnosi se si trovassero davanti, mica dentro una ignota selva oscura ma nel rassicurante ambiente del proprio cortile, non una lince, un leone e la lupa in rapida sequenza, ma semplicemente il pitbull ringhiante del garagista. Chissà, a tastarne il polso, i loro battiti cardiaci. E chissà poi se per svenire bisogna essere affetti da qualche patologia nervosa, quando non bastando lo spettacolo delle anime perdute traghettate da Caronte si venisse sottoposti a un “sì forte” terremoto da scuotere “la buia campagna”, squarciata per giunta da un fulmine vermiglio. Si conclude così il Canto III dell’Inferno, con il presunto narcolettico che cade “come l’uom cui sonno piglia”.


Per tornare a Borges, è facile smarrirsi nel nostro sogno di Dante autore che sogna il Dante personaggio con la fisicità per cui ne ricerchiamo le sembianze ma che rischiamo di non intendere più: “Con le reazioni emozionali del corpo, con i mancamenti, ha voluto trasmetterci il trionfo della materialità nell’Inferno scendendo sino al ‘vermo reo’ Lucifero, per poi intraprendere la risalita con la liberazione progressiva dalle passioni finché i corpi nel Paradiso si fanno luce e si sublimano in puro spirito al termine di un viaggio che rappresenta una battaglia”, commenta Matteo Palumbo, già ordinario di Letteratura italiana all’Università Federico II. I tentativi di ricostruzione del volto di Dante lo lasciano freddo ma nemmeno ostile, “anche se al mio immaginario basta l’iconografia canonica e non credo che un viso ridisegnato darebbe contributi alla conoscenza dell’opera. C’è però sempre bisogno di un emblema che fermi in qualche modo l’identità di un autore: il naso di Dante, l’aria da satiro di Machiavelli, quella da gran signore di Guicciardini. Vale pure per i contemporanei: c’è una sorta di equazione tra la figura sottile di Joyce e i suoi libri, come c’è per Proust o Kafka. Le loro fotografie ci restituiscono l’atmosfera delle rispettive opere e poi una cosa è certa: l’eccesso di astrazione fa male”. Concorda Ferroni: “La memoria sentimentale è importante perché la letteratura ha a che fare con la vita di chi ha trasformato la propria esperienza in scrittura”.


“Mi ricordo la fisicità televisiva di Ungaretti, quando recitava le sue poesie tirando fuori un senso e una forza da ogni singola parola pronunciata”, rammenta Palumbo. “Era l’epoca in cui apparivi sullo schermo per il crisma di un’autorità già conseguita, non per pubblicizzare il libro appena uscito con cui forse la conquisterai”. Né per pubblicizzare l’ennesimo volto del Sommo, che s’intende sarà sempre quello “vero”.


Mentre martedì 25 marzo celebreremo l’annuale Dantedì, già aspettiamo la prossima faccia. Farà più notizia, c’è da scommetterci, dell’intimo fantasma che ci aleggia attorno – con barba o senza – quando le sue pagine tornano a emozionarci. Conte non fa uso di psichedelici, ma confida che leggendo di notte il Paradiso prova “caleidoscopiche allucinazioni, come una fantasmagoria in cui m’addormento tra vortici di luce”. Chissà se Dante, “che ora è un nostro sogno”, da qualche parte ci sognerà mai.

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