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Opera
La Tosca di Livermore alla Scala è perfetta
In un teatro stracolmo e giubilante, va in scena uno spettacolo concepito soprattutto per la ripresa tv. Il suo regista si conferma fra quelli più in grado di raccontare davvero una storia rifacendosi a un immaginario contemporaneo, non a quello delle povere zie
La Scala non è un teatro di repertorio né deve diventarlo. Ma qualche giudiziosa ripresa è benvenuta. In questi giorni tocca alla Tosca “di” Davide Livermore che inaugurò l’ultima stagione dell’evo a. C. (ante Covid), nel ’19. E’ uno spettacolone spettacolare, concepito anche e forse soprattutto per la ripresa tv. E dunque in Sant’Andrea c’è un gran giramento di cappelle, su e giù e avanti e indietro, come in un Bernini hi-tech, e poi ponti mobili che si alzano svelando le camere dei tormenti, angioloni di Castel Sant’Angelo che perdono le penne come i ventagli degli Attavanti Bros., affreschi di casa Farnese che prendono vita e Tosca che la perde non zompando nel Tevere, che peraltro da lì non passa come Puccini spiegò invano a Sardou, bensì assunta in cielo in una Himmelfahrt tizianesca. Tutto è estremamente ricco e i turisti fanno “oh” come gli indimenticati piccioni di Povia. Talvolta, magari, si tratta di effetti senza causa, però in un’opera che è una “macchina” teatrale perfetta il minimo che si possa dire è che ci si diverte, e molto. Livermore si conferma uno dei pochi registi d’opera attuali in grado di raccontare davvero una storia rifacendosi a un immaginario contemporaneo e non a quello delle povere zie.
Dal podio, ennesima ottima prova del giovin direttore Michele Gamba, al netto di uno scollamento d’insieme all’attacco del “Te Deum” (e no, non alla prima quando è andata via la luce proprio lì, ma alla replica di martedì). Gamba non rinuncia alle affettuosità pucciniane ma inglobandole in una lettura risolutamente novecentesca, mentre i tempi generalmente distesi permettono di sottolineare i mille squisiti dettagli strumentali di quel mago dell’orchestrazione che era il Puccio. Il secondo atto ha la prevista tensione incalzante da noir; idem il finale, dove nemmeno la trionfalata degli unisoni di soprano e tenore che assaporano la libertà ferma l’angoscia sottile che pervade tutto l’atto (e poi: “Liberté, Egalité, Fraternité / Tu rubi a me, io rubo a Te!”, cantavano proprio in quegli anni i sanfedisti del cardinale Ruffo, altro che Ventotene, Gggiorgia mia…). La compagnia è ottima, com’è indispensabile sempre ma per le riprese di più, altrimenti che le facciamo a fare? Cominciando dalle seconde parti: Marco Filippo Romano, il sagrestano, e Carlo Bosi, Spoletta, confermano che non esistono piccoli ruoli ma solo cattivi cantanti: vedi il vocione sgraziato dell’Angelotti orientale. Come Cavaradossi c’è un Francesco Meli in stato di grazia, per bellezza di timbro “il” tenore italiano. Però Meli sa anche cantare e la dinamica sfumata e il fraseggio raffinato fanno passare in secondo piano l’accenno di singhiozzo in “E lucevan le stelle”.
Luca Salsi, che proprio quella notte compiva cinquant’anni, auguri, è uno Scarpia di una cattiveria monumentale, oggi senza rivali in questo ruolo che, nelle gole sbagliate, può anche diventare insopportabile. E nel ricordato “Te Deum” domina senza problemi cori e orchestra. Infine, Chiara Isotton che, dopo anni di insensata gavetta, si gode i ruoli da protagonista. Si tratta di un vero soprano “spinto”, finalmente, e il do della “lama” è una bomba che deflagra sotto la volta del Piermarini (come quello già segnalato a suo tempo del concertato del Macbeth, del resto, ma lì Isotton faceva la Dama). C’è però anche un raffinato “Vissi d’arte”, a testimonianza di un eccellente controllo dell’emissione. Manca, per ora, un po’ di quel carisma sfrontato ed erotico della primadonna che interpreta Tosca la primadonna, insomma una primadonna al quadrato. Ma da questo punto di vista il secondo atto è meglio del primo, e il terzo meglio del secondo: e qui Isotton è davvero bravissima. Teatro stracolmo e giubilante. E tuttavia per una volta i turisti overdressed che infestano la Scala non mi hanno irritato ma inorgoglito: eccoli qui, i barbari, a vedere una dei grandi capolavori dei nostri grandi compositori in uno dei nostri grandi teatri. Chissà che commenti e racconti, in qualche tragico tinello del Minnesota o del Sichuan…