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Sui confini
Oltre trenta indagini fotografiche dal 1990 al 2022 in mostra a Reggio Emilia
Si chiude il 23 marzo l'esposizione al Palazzo dei Musei che ha il grande merito di raccontare uno “stile” non tanto fotografico, ma di impostazione culturale. Quello di Linea di Confine è il più longevo e sistematico tentativo di indagine sul territorio della storia della fotografia italiana
Si chiude domenica prossima, il 23 marzo, un’importante mostra al Palazzo dei Musei di Reggio Emilia che, forse, non ha ricevuto l’attenzione che meritava. Si intitola “On Borders / Sui Confini-L’esperienza d’indagine di Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea” a cura di Ilaria Campioli, William Guerrieri e Monica Leoni. La mostra propone oltre 250 opere della collezione di Linea di Confine, in deposito alla Fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia (la stessa che conserva l’archivio di Luigi Ghirri). I lavori esposti sono il risultato di oltre trenta indagini fotografiche realizzate dal 1990 al 2022 sul territorio emiliano e non solo. Linea di Confine è un’associazione culturale che riunisce alcuni comuni emiliani (Boretto, Correggio, Fiorano, Luzzara, Rubiera, Scandiano) e l’Ente di Gestione per i Parchi e la Biodiversità Emilia Centrale. E’ stata fondata da William Guerrieri e Guido Guidi nel 1989 e ha avuto come direttore scientifico Paolo Costantini, il più importante critico di fotografia che l’Italia ha avuto negli ultimi quarant’anni e scomparso nel 1997 a 38 anni.
Quello di Linea di Confine è il più longevo e sistematico tentativo di indagine sul territorio della storia della fotografia italiana. Un’esperienza che si inserisce nella tradizione della commissione pubblica, nata con la Farm Security Administration negli Stati Uniti negli anni Trenta, e che ha visto tra gli episodi più noti da “Mission Datar” in Francia e “L’archivio dello spazio” in Italia. Quella emiliana, tuttavia, ha delle caratteristiche proprie, che la distinguono dai suoi antecedenti internazionali e dalle iniziative simili nel nostro paese. Innanzitutto per l’interesse dal quale prende il nome. Spiegano i curatori della mostra: “Il confine è uno spazio particolarmente interessante poiché di norma rivela, in anticipo sui tempi, quello che sarà”.
In oltre trent’anni l’attività dell’associazione si è evoluta ed ha cambiato pelle, senza però perdere l’impostazione di fondo, che vedeva il forte respiro internazionale e l’approccio “laboratoriale”. Costantini era stato l’uomo che, nel 1987, aveva curato la mostra “Nuovo paesaggio americano/Dialectical Landscapes” a Palazzo Fortuny di Venezia. In quell’occasione, per la prima volta, arrivavano in Italia i protagonisti della generazione dei cosiddetti “Nuovi Topografi”, che avevano rivoluzionato il linguaggio fotografico come strumento poetico di indagine del territorio e, ancora oggi, sono considerati tra i padri nobili del medium. Alcuni di loro sono ospiti di Linea di Confine: Lewis Baltz, Frank Gohlke e Stephen Shore. A loro si uniscono altri grandi nomi internazionali: John Gossage, Micheal Schimidt e Axel Hütte. All’elenco vanno aggiunti alcuni maestri di casa nostra: lo stesso Guidi, Franco Vaccari, Vittore Fossati e Olivo Barbieri.
Tuttavia, a differenza di molte esperienze di commissione pubblica, questa non si limita a invitare un grande nome a lavorare su un tema particolare (nel periodo di Costantini, addirittura, l’autore era lasciato libero da qualsiasi “mandato istituzionale”), ma coinvolge l’artista in un “laboratorio”, al quale partecipa un gruppo di giovani fotografi che con lui lavorano e interagiscono. In questo modo l’indagine si fa più ampia e, mentre si ricerca, si sviluppano relazioni artistiche e umane che fecondano la comunità fotografica. La storia di Linea di Confine, poi, ci dice che, nel corso degli anni, alcuni giovani selezionati per workshop sono diventati poi gli autori invitati nelle campagne degli anni più recenti (ad esempio Walter Niedermayr e Paola De Pietri).
La mostra di Reggio Emilia ha il grande merito di raccontare uno “stile” non tanto fotografico (sì, c’è anche grande consonanza tra le poetiche degli artisti invitati) ma di impostazione culturale. Innanzitutto nel concepire la fotografia come strumento di conoscenza fededegno (e non infotainment) per il quale vale la pena spendere soldi pubblici. Poi la convinzione che l’invito del grande nome internazionale (che non per forza deve essere una celebrità) non può essere in funzione della visibilità mediatica che fa contenti assessorati e assessori, ma deve garantire la qualità della ricerca. E, infine, la volontà che i soldi spesi per ospitare l’artista americano, piuttosto che tedesco o inglese, debbano essere l’occasione per i giovani autori italiani di incontrare e conoscere grandi maestri. Linea di Confine non è stato il migliore dei mondi possibili, per carità. Ma tra le esperienze imperfette di committenza pubblica di fotografia è stata forse, finora, la migliore.


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