
Foto ANSA
luxury punk
Anne Imhof, abbiamo trovato la Marina Abramovic del futuro
Fluidissima, fashion oriented e carismatica figura dell’arte contemporanea a 360 gradi: è lei l'erede della mitica artista serba
Chi sarà la Marina Abramovic del futuro? Chi sarà il o la nuova Dalai Lama di quella, ancora ostile ai più, forma artistica chiamata “performance”. Se tanto ci dà tanto, a vedere l’endorsement della stessa Abramovic e del Kissinger del mondo dell’arte, il direttore della Neue Nationalgalerie di Berlino ed ex Moma, Klaus Biesenbach, la scorsa settimana a New York durante la sua performance – se è ancora lecito chiamarla così – l’erede della mitica artista serba è Anne Imhof.
Nell’enorme spelonca del Park Avenue Armory, Imhof ha messo in piedi una piccola maratona di tre ore dove il pubblico, previo esborso di 50 dollari, poteva assistere a “Doom, House of Hope”, “Destino, Casa della Speranza. Una sorta di rave dantesco dove chi entra più che la speranza perde la pazienza. L’esperienza, chi ha il coraggio e il tempo per farla, è sicuramente più dinamica delle 736 ore e 30 minuti che la Abramovic passò al Moma nel 2010 a guardare negli occhi migliaia di sconosciuti che si sedevano davanti a lei. Esperienza più dinamica e social media predisposta. Ma anche molto caotica, benché fosse un caos neoromantico e molto modiaolo. D’altronde, Anne Imhof è stata la musa di Demma, ex Balenciaga, neo Gucci. Fluidissma e carismatica figura dell’arte contemporanea a 360 gradi. Personaggio luxury punk molto diverso dalla sacerdotessa Marina. Il pubblico, per sua stessa richiesta, può vagare nello spazio senza obblighi di concentrazione e limiti di permanenza. Il collage emotivo e performativo va dai dialoghi di Giulietta e Romeo a West Side Story con una scenografia dove la parte del leone la fanno delle Cadillac nere. Una sorta di America Graffiti dell’oltretomba.
C’è molta angoscia e poca ribellione. Molta sensualità e sufficente sessualità. Nessuna pornografia cinica o nichilista. Più che alla generazione Z, parla alla generazione K, che non so nemmeno se esista, ma esisterà e della quale faranno parte tutti quelli che hanno avuto l’occasione di partecipare al destino condiviso da quest’artista. La sensazione è di essere dentro una sorta di rituale mistico di Hermann Nitsch, l’artista austriaco morto un paio di anni fa, vegano. L’invito per gli spettatori è quello di mettersi a proprio agio dentro il profondo disagio messo in scena. Infatti uno si sente molto cool a essere lì in piedi a soffrire e soffrigere per una certa noia latente ma mai deludente. Anzi, l’esperienza è davvero dantesca, vivi fra moribondi e moribonde, fra spettatori e spaccatori di maroni molto, molto, professionali. A confronto, l’Abramovic che lavava con la spazzola le ossa, nel suo Balkan Baroque alla Biennale del 1997, sembra molto antica anche se paradossalmente, visti i massacri che ci circondano, più attuale di questo narcisismo intento a lavarsi l’ombellico dalle proprie ossessioni destrutturate, più Rick Owens che George Orwell. Ma non c’è dubbio che il futuro appartiene a gente come la Imhof in un mondo sempre più post anatomico e paleocomico.
Certo, l’arte della performance non apparterrà agli eredi di gente come Vito Acconci, che nel 1972 si masturbava sotto una piattaforma nella galleria Sonnabend di New York, né a Oleg Kulik, quello che nudo faceva il cane legato alla catena ma che nonostante questo riusciva ad azzannare uno spettatore nel 1996 alla Färgfabriken di Stoccolma. Ma nemmeno all’innocuo ma estenuante David Adamo che nel 2007 stette a guardare un quadro di John Singer Sargent al Metropolitan di New York per l’intera apertura del museo, mandando in tilt le guardie che sospettando volesse fare qualche danno al quadro furono costrette a controllarlo per l’intera giornata, impossibilitate a impedirgli di ammirare l’opera. Altro che Ultima Generazione. Il performer oggi,come tutti noi d’altronde, per essere efficace deve essere social e fashion oriented, altrimenti lascia il tempo che trova, anche se il tempo trovato può, davvero, essere veramente troppo.


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