facce dispari

Marcello Landi: “A un libraio felice la crisi non fa paura”

Francesco Palmieri

Partito da Cava de’ Tirreni, dopo anni di gavetta ha rilevato la storica libreria Cappelli di Bolzano, frequentata anche da Hemingway negli anni 30. "Trasmettere la passione ai nostri clienti è la differenza tra le librerie e i negozi d'abbigliamento. Gli italiani leggono poco ma la situazione può cambiare"

Tra Cava de’ Tirreni, provincia di Salerno, e la città di Gorizia intercorrono 589 chilometri in linea d’aria (883 in automobile). Marcello Landi, oggi quarantunenne, non esitò a percorrerli inseguendo la passione dei libri, che si declina in varie possibilità tra cui leggerli, scriverli, collezionarli, pubblicarli, non pubblicarli, stamparli e venderli. Quest’ultima attività muove alcuni a catalogare i librai tra i commercianti, ignorando la loro essenziale peculiarità: non vorrebbero né saprebbero vendere altro che libri. È il caso di Landi, il quale dopo aver diretto le Ubik di Gorizia e di Trento diventò responsabile di quella di Bolzano dal 2014 fino al 2023, quando decise di mettersi in proprio resuscitando la storica libreria Cappelli, che aveva chiuso un’avventura avviata nel 1938 nel capoluogo altoatesino. L’impresa è riuscita e Landi la rivendica con orgoglio prendendo spunto dalle vicissitudini della catena Feltrinelli, che ha fatto notizia per lo sciopero dei dipendenti.

Non contrapponga la retorica del “piccolo è bello”.

Me ne guardo. Piuttosto rilevo la retorica di chi esponendo le serigrafie di Che Guevara, di Falcone e Borsellino si sente migliore dell’esecrata Amazon ma poi non offre ai dipendenti gli stimoli della passione professionale.

Quali sarebbero?

Non giriamoci attorno: è questione di trattamento economico. Non è per “volemose bene”, ma un dipendente soddisfatto è più motivato. E poiché i libri non sono come le borse o i tondini di ferro, senza entusiasmo si vendono peggio. Un dipendente malmostoso o depresso spinge il cliente nelle braccia di Amazon a giusta ragione. I vertici delle catene librarie credono di massimizzare i profitti riducendo i costi del personale, ma il lavoro culturale funziona come una piramide rovesciata: si deve investire sulla base. Meglio aumentare i buoni pasto ai dipendenti e tagliare gli stipendi ai manager, che vivono chiusi in una stanza sbraitando dinanzi al pc coi fatturati senza percezione diretta della “prima linea”.

Qual è la differenza tra un libraio e un commesso, come ha rilevato Maurizio Crippa in un articolo su Il Foglio del 19 marzo scorso?

Se nelle Feltrinelli gli spazi prestabiliti sono venduti ai grandi editori, un dipendente che consigli il volume di una piccola casa perché lo trova interessante viene guardato come improduttivo in un sistema in stile Panopticon, con cui la dirigenza controlla e comprime i margini di libertà. Perciò si preferisce prendere uno stagista totalmente allineato, un commesso reclutato dai punti vendita Foot Locker. Però con i libri non funziona così. Salvo che per pochissime persone, i libri non rappresentano una esigenza primaria, ma prima di tutto un piacere. Chi vende fa la differenza. Le librerie sono come le gelaterie.

Ossia?

Viene voglia di gelato quando passeggiando t’imbatti in una gelateria. Se non ce ne sono, pure la voglia resta sopita. Perciò ogni libreria che chiude non avvantaggia la concorrenza, anzi alla lunga le procura un danno.

Come si sostiene una libreria indipendente?

Prima di tutto c’è il rapporto con il quartiere: ho riaperto la Cappelli rilevando locali che erano sfitti da sette anni e per i residenti è stata la riaccensione di una luce. Poi istituendo un’intensa relazione con le associazioni territoriali: a novembre scorso abbiamo toccato il record di 40 eventi in 26 giorni di apertura. Proponiamo sia i libri reperibili nei grandi punti vendita sia editori più di nicchia. L’offerta trasversale consente l’equilibrio e una certezza: la fuga verso Amazon è reversibile. Si chiude perché non ci si adegua ai cambiamenti. La Cappelli era aperta dal 1938, prima libreria in lingua italiana in Alto Adige. Aveva resistito alla guerra e aveva avuto Hemingway tra i clienti, poi aveva sofferto un progressivo declino fino alla chiusura, che fu come un lutto per la città. Oggi invece c’è chi preferisce ordinare un volume da noi anche se lo vede in un’altra libreria. Quando abbiamo celebrato il primo compleanno della Nuova Cappelli c’erano quaranta lettori, tutti volontari, che aiutavano a gestire le iniziative, tra cui una mostra sul nostro cliente più illustre: abbiamo esposto una canna da pesca di Hemingway e il tavolino regolabile su cui scriveva, che alzava o abbassava a seconda del mal di schiena.

Morale: i venditori felici salveranno i libri?

Ne sono convinto, malgrado gli indici di lettura in Italia. Anzi, aggiungo alle statistiche la personale opinione, e non è una boutade, che persino gli ucraini sotto le bombe leggano più di noi. Eppure, se ci fossero librai felici invece che commessi mal compensati le cose cambierebbero. Chi lavora con me trasmette entusiasmo a chi entra perché sente sua la nostra attività. Ho finanziato ai dipendenti anche corsi di formazione di una settimana che ho registrato come orario di lavoro, prevedo i premi di risultato e a fine anno mille euro di libri, perché chi legge consiglia meglio. È la differenza tra i negozi di Prada e le librerie. Lo dico io che a Cava de’ Tirreni lavorai dieci anni in nero in un punto Mondadori, che avevo cominciato a frequentare già quando andavo a scuola. Lo gestivo come se fosse mio e otto mesi dopo che me ne andai chiuse. Il mercato è un problema, ma a tener su le librerie o a farle finire sono sempre le persone.

Librai si nasce?

Forse sì, per me credo ci si muoia. Se dovessi nuovamente cambiare città per questo lavoro non esiterei. Viene prima di tutto e lo identifico con la mia vita.

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