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Rileggere Francis Fukuyama per capire il trumpismo
Gli eventi hanno in buona parte smentito la “fine della storia”, ma il libro del 1992 non era una profezia ed è ancora attuale nella parte dedicata all’“ultimo uomo”. La storia che procede per conflitti, generati da nuove soggettività che reclamano spazio
Francis Fukuyama rimane tutt’oggi uno dei nomi più celebri della scienza politica contemporanea per il suo libro ormai classico, divenuto espressione proverbiale, "La fine della storia e l’ultimo uomo". Al di là delle critiche a cui è stato sottoposto il libro, e della parziale smentita per gli eventi che sono seguiti alla sua prima edizione del 1992, non ultime le guerre in Ucraina e in medio oriente, la riflessione di Fukuyama non era l’opera di un profeta ma nemmeno quella di un fesso e mantiene alcuni spunti di riflessione straordinariamente interessanti che riguardano la parte più negletta del titolo, quella su “l’ultimo uomo”. In particolare, c’è un punto dell’analisi di Fukuyama che proprio per il suo portato filosofico-antropologico risulta ancora attuale e piuttosto illuminante per guardare alla situazione contemporanea: tanto per le istanze che vanno sotto il nome di cancel culture, dirittismo, woke etc. quanto per quelle che si possono mettere sotto il generico marchio di “trumpismo”. Si tratta dell’analisi che Fukuyama fa del concetto di “thumos”, quella parte del carattere dell’uomo che esprime il senso del valore di sé e della necessità del riconoscimento che può venire solo dagli altri. Il thumos è un insieme di orgoglio, vergogna e rabbia, le passioni che portano l’uomo a desiderare di essere riconosciuto come esistente, unico e di valore. In questo l’autore è, ovviamente, esplicito debitore del grande Kojève e della sua analisi hegeliana.
Nella parte più “storica”, Fukuyama fa suo lo schema secondo cui la storia procede per conflitti, generati dal desiderio di riconoscimento (e dal thumos) di nuove soggettività che vanno via via affermandosi e reclamando nuovi spazi. Questi conflitti portano allo sviluppo di sistemi politici che poi si disgregano a causa delle contraddizioni generate al loro interno, dando vita a modelli via via meno contraddittori fino a raggiungere un modello che sia il meno contraddittorio, e quindi il meno conflittuale, non perché i conflitti spariranno del tutto ma perché quel modello sarà in grado di assorbirli e soddisfarli meglio di tutti i predecessori. Fukuyama è quindi portato a chiedersi se esistano nel nostro ordine sociale liberaldemocratico delle contraddizioni così violente da poterci far pensare che il processo storico possa continuare producendo ancora un qualche ordine politico superiore. E la sua risposta è molto chiara: non tutto è risolto, ovviamente, ma il sistema a disposizione, quello in cui viviamo, sarebbe il migliore per assorbire e risolvere le contraddizioni e i conflitti, per soddisfare il desiderio di riconoscimento di un gran numero di uomini. Tutto è ancora migliorabile, certo, ma in maniera perlopiù pacifica e all’interno di una sostanziale stabilità sociale e politica fatta di rispetto reciproco, garanzia dei diritti, libertà ed eguaglianza. In questo senso Fukuyama parlava di “fine della storia”. Tutto sommato, però, non si tratta di eudaimonismo liberale. L’autore non prospetta un tranquillo Eden in cui tutti vivranno beati. La sua prospettiva, se si mettono da parte gli aspetti più datati e legati alla contingenza della sua analisi, è ben più ombrosa.
La parte del libro che qui più ci interessa è quella dedicata all’ultimo uomo (formula nietzschiana), l’abitante di questa presunta fine della storia liberaldemocratica. Un uomo che non ha scopi “superiori”, che vive all’interno delle regole del mondo e della società che si fa sempre più ampia e inclusiva, che cerca di aumentare il proprio benessere ormai del tutto, o quasi, liberato dalle catene del bisogno, che può quindi attuare e soddisfare i propri desideri nel rispetto degli altri, che pone spesso in cima alle sue preoccupazioni la sua salute (in questo ritornando a essere come i primi uomini che badavano solo all’autoconservazione).
Del resto, se la vita umana, per necessità della nostra progressivamente maggiore presa di coscienza di noi stessi, del mondo e della sua realtà, ha raggiunto tutto ciò che si poteva in termini di modello politico-sociale-economico e ora c’è solo da elaborare pacificamente da lì in avanti; se ogni destino “superiore” e ogni “anima” sono svaniti, cosa resta se non, timorosamente, la vita biologica da salvaguardare il più a lungo possibile? E il thumos, quell’impasto di rabbia, orgoglio e vergogna, quella poderosa e in parte animalesca componente del nostro carattere posta come motore della storia, proprio per la sua strutturale conflittualità (perché solo attraverso una relazione conflittuale si può ottenere il riconoscimento desiderato dal thumos), viene assorbito dalle maglie larghe della democrazia liberale.
Fukuyama, partendo dal concetto di thumos ne analizza due forme estremizzate: megalothimia (più grande) e isothimia (più uguale). La megalothimia è una forma di desiderio di riconoscimento impositivo che aveva alla sua radice il desiderio di essere non solo riconosciuti ma di essere riconosciuti come superiori, dominanti. L’aristocrazia è stata portatrice di questo tipo di carattere e di senso di sé: nella guerra, nella conquista e nel dominio trovava la propria soddisfazione. L’affermarsi della borghesia e l’esplosione di benessere e progresso tecnologico che a essa si è accompagnata hanno segnato una progressiva vittoria dell’equilibrio necessario tra desiderio e ragione rispetto alla componente timotica del carattere umano. La megalothimia è stata allora in parte squalificata, divenendo tabù; e in parte è stata genialmente sublimata nella competizione economica, nello sport, nella spinta a eccellere in una qualsiasi disciplina (dalla medicina, all’ingegneria, alla composizione musicale, etc.), con beneficio della maggioranza che può godere dei frutti di quella eccellenza.
L’isothimia, l’altra parte della componente timotica, si presenta, invece e all’opposto, sotto una forma esplicitabile con le domande: se siamo tutti uguali, perché non ho diritto a ciò di cui hanno diritto tutti gli altri? Perché qualcosa agli altri e non anche a me? Perché non posso essere riconosciuto in maniera identica a chiunque altro? Scrive Fukuyama: “Un eccesso di isothimia – il desiderio fanatico di uguale riconoscimento”.
A tal proposito, l’autore osserva ciò che è normale succeda in una società molto evoluta e molto benestante: le forme di ciò che si ritiene diseguaglianza si allargano progressivamente, invece di restringersi, con l’avanzare di benessere e diritti: un meccanismo che si autoalimenta. Il razzismo inteso nel senso più ampio, il sessismo, l’omofobia, si sovrappongono (oggi si direbbe in modo intersezionale) a quelle che erano le tradizionali lotte sociali: ciò che era soltanto economico viene sostituito da un più ampio bisogno di riconoscimento del tutto immateriale. Una volta che il principio cardinale di qualsiasi società liberaldemocratica, ossia il riconoscimento della dignità di ciascuna persona, è stabilito è improbabile che le persone continueranno ad accettare l’esistenza di forme residuali di diseguaglianza, quelle connaturate alla strutturale differenza degli individui. Anzi, la passione per l’uguale riconoscimento non tende a diminuire con il raggiungimento di maggiori eguaglianza e benessere materiale, ma può essere da questi stimolato. Perché più ci si percepisce come simili e, anzi, come uguali, più il mondo attorno, a maggiore beneficio di tutti, cresce, più si tende a divenire suscettibili e risentiti per differenze che comunque rimangono in quanto, ovviamente, ogni individuo è diverso dall’altro.
Fukuyama scrive il suo libro subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica e comprende una cosa fondamentale: l’idea anti-individualistica alla base del socialismo non va di pari passo col destino della sua più duratura e poderosa creatura politica, perché attinge a un impeto connaturato nell’uomo, quello che lui chiama appunto isothimia, ma si insinuerà nelle democrazie liberali sotto mentite spoglie.
I diritti alla base delle democrazie liberali, infatti (inviolabilità della persona, libertà individuale, proprietà privata), appaiono incapaci di difendersi attraverso il loro stesso valore e di rispondere al desiderio di riconoscimento delle minoranze di ogni tipo (e sempre crescenti) che sentono (sempre di più) il bisogno di vedere riconosciuta e vidimata ufficialmente la loro identità; un tipo di richiesta a cui nessuna democrazia liberale può opporsi, tutta tesa come è, e come deve essere, pena la perdita di riconoscimento da parte della popolazione governata che ne garantisce la legittimità, a promuovere una società più eguale. Ma che può essere tale, ovvero sempre più eguale, solo nella misura in cui riesca a riconoscere e individuare sempre nuove minoranze da riconoscere e da equiparare a tutte le altre. Non riconoscere una qualsiasi diversità, per quanto arbitraria, infatti, significa correre il rischio di generare dolore in chi non viene riconosciuto. Ed ecco il punto nodale: il dolore, nella società dell’ultimo uomo, è ciò che non è più accettabile, la sofferenza è il male radicale che va estirpato a tutti i costi. Il rifiuto e la sconfitta di ogni tipo di sofferenza diviene il principio metafisico attorno a cui organizzare la società. Dolore fisico, psichico, spirituale, etc.
Nell’eguaglianza assoluta raggiunta tramite il massimo riconoscimento della diversità, una democrazia liberale trova il proprio provvisorio spazio di legittimazione. Così che ciascuno possa appartenere a un’eccezione che, essendo riconosciuta come tale non si senta in alcun modo (ecco il paradosso) diversa. Ma più eguale attraverso la diversità, perché nell’avere la propria diversità riconosciuta ciascuno è automaticamente equiparato a tutti gli altri, arrivando ad appartenere a un’eccezione che non è più classificabile come migliore o peggiore, superiore o inferiore, rispetto a chiunque altro, ma semplicemente come diversa. Così si smette di soffrire per la propria diversità perché equiparata a quella (identica) di tutti gli altri.
Tuttavia, se si riflette per un attimo su questa prospettiva si comprende qualcosa di allarmante e piuttosto realistico ovvero che la tensione egalitaria, una volta messa in moto, non conosce fine. Nella negazione positiva delle differenze tra uomini (ovvero nell’eguaglianza assoluta raggiunta tramite riconoscimento di massima diversità come antidoto a ogni forma di dolore potenziale) risiede la soglia per negare la differenza dell’uomo rispetto a tutti gli altri esseri viventi. Se la sofferenza diviene l’unico criterio oggettivo di riferimento attraverso cui prendere decisioni, coloro che soffrono sono tutti uguali proprio perché soffrono, e nessuno ha diritto di far soffrire qualcun altro: uomo o animale (o pianta?) che sia. Non esistono istanze che vadano oltre l’istanza posta dal dolore. Ecco perché per ciascuno, e progressivamente per ciascun essere senziente, va stabilita per legge l’eccezionale e assoluta uguaglianza nella diversità.
Diviene così evidente come la storia non finisca affatto con la democrazia liberale, come non esista un tempo che si estenderà perennemente in cui l’ultimo uomo vivrà come una sorta di animale superevoluto e ormai pacificato, tutto preso solo dal consumare, dal vivere tranquillo e nella pura e semplice preservazione della sua esistenza biologica.
Alimentato, nella contingenza sociale e politica, dall’imperfetta reciprocità del sistema liberaldemocratico che non tollera, attraverso i suoi cittadini giunti a un grado molto elevato di autocoscienza, quella stessa diseguaglianza che lo tiene vivo e dinamico, il conflitto riemerge come conflitto puro motivato dalla sua stessa necessità esistenziale (necessità per l’uomo che non può vivere nella stasi di un’augurale pace perpetua) e spinto, nella sostanza, dalla tensione verso l’eguale riconoscimento. Una tensione che deve di continuo superare sé stessa, i limiti appena raggiunti, alimentandosi di sempre nuovi diritti che soddisfino il desiderio di riconoscimento di chiunque ne senta il bisogno.
L’uguaglianza, così, diviene naturalmente più importante della libertà, perché il dolore avvertito per la diseguaglianza che percepisco (dolore mio e/o quello con cui empatizzo) diviene un male radicale da eliminare a qualsiasi costo. Inoltre, la libertà stessa, che è l’essenza dell’azione umana, e che ha talvolta camminato accanto all’eguaglianza, diviene sua nemica giurata perché evidenzia attraverso l’azione (e quindi in maniera plastica e irrimediabile) le differenze tra gli individui.
Si genera quindi una nuova forma di assolutismo fideistico e religioso, del tutto inedito, ma che, come ogni assolutismo, tende a limitare la libertà in nome di qualcosa di migliore, che in questo caso è la difesa incondizionata di ogni essere vivente come potenzialmente sofferente, come potenziale vittima: il principio della difesa della vittima diviene il nuovo assoluto, il nuovo oggetto di culto nel mondo in cerca di fede.
E’ dunque evidente come a una prospettiva del genere, che è quella portata avanti dalle istanze genericamente woke che ben si conoscono, si opponga naturalmente e spontaneamente un movimento reattivo, diciamo pure impregnato di megalothimia, che rifiuta questa tenaglia fusionale egalitaria. E da qui rinasce il conflitto.



L'editoriale dell'elefantino