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Le vite incarnate dal Vecchio Cibernetico e la sua Olivetti Lettera 22

Carlo Maria Simone

"Storia d’amore e macchine da scrivere" di Giuseppe Lupo è un romanzo denso di leggerezza e graziosissime rubriche illustrate. Conducendo il lettore in una geografia prismatica di luoghi, tempi e persone

Il Vecchio Cibernetico è un mistero. “Possiede la memoria di un passato degno di un’epopea tecnologica e il sorriso incantato di un bimbo, ma quando parla, si sente come dentro un nido di passeri o un gomitolo di lana”. Di costui, chi comincia a leggere Storia d’amore e macchine da scrivere (Marsilio), l’ultimo romanzo di Giuseppe Lupo, sa solo che ha costruito Qwerty, un marchingegno straordinario, in grado di cambiare la storia dell’umanità. Ma Qwerty nessuno l’ha mai visto.

 

Ecco perché il giornalista Salante Fossi insiste per procurarsi da questo genio in odore di Nobel un’intervista, che però sembra non prendere mai forma. Poiché il Vecchio Cibernetico nicchia, dorme, forse sogna. E racconta i diversi nomi che ha incarnato, le vite sfaccettate che ha attraversato, solcando le “colpe del Novecento” e le sue rivoluzioni. Peripezie, fughe, incontri, e l’amore, sempre portandosi dietro la sua Olivetti Lettera 22, che è come un anello nuziale.

 

Allora Salante Fossi inizia ad intuire che ha per le mani “qualcosa che va oltre la soglia di un’intervista, è la ricapitolazione di una vita, il compendio di una civiltà”; e il lettore resta ad ascoltare insieme a lui.

 

Storia d’amore e macchine da scrivere è un romanzo che merita. E’ così per la leggerezza che trapela fin dal titolo e che pervade lo stile di Lupo, una leggerezza che ha qualcosa di quella dello “scoiattolo della penna” (come ebbe a definirlo Moravia), Italo Calvino. Merita per le graziosissime rubriche illustrate da Lorenzo Fossati poste all’inizio di ciascun capitolo, che mi hanno riportato alla mente i disegni che decorano la mia vecchia edizione de La storia infinita di Michael Ende.

 

Merita per essere un romanzo di respiro europeo, che, a partire da una bimba che gioca nel vicolo di Bástya utca a Budapest, conduce il lettore attraverso il cimitero ebraico di Praga, sulla Moldava e oltre il Danubio, passando per l’utopica Ivrea di Olivetti, con un salto in California, fino a Skagen in Danimarca, dove il Mare del Nord e quello Baltico “si toccano senza mescolarsi”, e a Cabo da Roca, la propaggine in cui il nostro continente finisce, in una geografia prismatica di luoghi, tempi e persone che irretisce e ammalia.

 

Ma soprattutto, questo romanzo, che pure ama teneramente le macchine da scrivere e che vagheggia l’“invenzione stupenda” (parole di Galileo) dei Fenici, cioè l’alfabeto, vale la lettura per ciò che tace e accenna soltanto: per i suoi continui indugi sul silenzio, sui vuoti tra un tasto e l’altro; su ciò che non lasciamo trapelare alla luce del resoconto che facciamo di noi stessi, ma che comunque ci definisce. E’ lungo il confine tra il “racconto” in cui entriamo “quando abbiamo un nome” e i “silenzi, gli spazi bianchi tra le lettere stampate” che splende la magia di questo romanzo. O che danza, per riprendere la bella immagine di Ann Lee, la donna del Vecchio Cibernetico, che si muove a tempo coi martelletti della Olivetti del marito, “leggera come una sillaba, completa come una frase”.